Storia di Takoua Ben Mohamed. Dal deserto del Sahara alla periferia di Roma
L’ironia può essere un ottimo strumento per affrontare temi delicati e attuali come l’integrazione, il dialogo tra culture e la lotta alle discriminazioni. Ne è un esempio la storia di Takoua Ben Mohamed, originaria della Tunisia, ma cittadina di Roma, che, attraverso il linguaggio del fumetto, ha scelto di raccontare la sua esistenza.
Tunisina di nascita, romana di adozione. Il suo nome è Takoua Ben Mohamed e di mestiere fa la graphic journalist. Ha scelto il fumetto per raccontare e comunicare. Per parlare di integrazione, cittadinanza, discriminazione, dialogo e culture. Sì, non cultura, ma al plurale, culture. Perché è figlia sia della bianca sabbia di Douz, sia dei quartieri periferici di Tor Bella Monaca e Centocelle. La sua storia e la lotta alla civiltà la custodisce e divulga tutti i giorni attraverso quello che lei stessa chiama il “fumetto intercultura”, fondato a soli 14 anni.
“Non esistono due culture che non hanno niente in comune, proprio sui punti in comune dobbiamo lavorare per costruire il dialogo e la convivenza”. È questa la frase che introduce l’utente al sito di Takoua Ben Mohamed. Classe 1991, in Italia sin dall’età di otto anni, indossa il velo per scelta. Ecco che cosa ci ha raccontato.
Cosa ricordi della Tunisia? Sei più tornata a Douz?
In Tunisia ho vissuto la mia prima infanzia, fino agli otto anni, poi nel 1999 mi sono trasferita con i miei fratelli e mia madre per raggiungere e conoscere mio padre che era già a Roma da qualche anno perché esiliato politico, fuggito dalla dittatura di Ben Alì nel 1991 quando io ero appena nata. Ho tanti ricordi della Tunisia, belli ma soprattutto brutti. La dittatura purtroppo ti nega ogni libertà, perseguita e tortura anche i familiari degli oppositori. Ricordo bene che venivano ogni giorno per interrogare mia madre e perquisivano casa nostra mettendola in disordine per sapere di un uomo che ormai era fuggito da anni. Ricordo mio zio che era stato incarcerato nel 1991, i segni di tortura sul suo corpo che lui nascondeva dietro a un sorriso e qualche barzelletta per far divertire noi piccoli in quel periodo buio. Ricordo il giorno in cui lo hanno fatto uscire dal carcere, nel 2000, morto sotto tortura e malato di cancro, privato di ogni cura medica e di pulizia del carcere. Ricordo i giorni in cui le persone ci guardavano e ci evitavano per non rischiare fastidi da parte del governo di allora.
Ricordi altro?
Ho anche ricordi belli: la mia famiglia, i miei cugini e i miei nonni che si son presi cura di noi per permetterci di andare a scuola e studiare, le persone care che ci facevano sorridere nonostante le sofferenze subite. Ricordo il deserto dietro casa, le palme su cui mi arrampicavo come Mowgli, i profumi di gelsomino e il buon dattero. Sono potuta tornare nella mia patria solo nel 2011, dopo la caduta della dittatura di Ben Alì. Non riconoscevo parenti o amici. Dopo dodici anni di esilio in Italia mi era solo rimasto qualche vago ricordo della casa e del deserto. Solo le brutte esperienze non si dimenticano mai. Nel 2011, quando sono entrata nella casa dove sono nata, ormai svaligiata dai ladri e distrutta, c’erano dei disegni impressi sul muro che avevo fatto da bambina, forse l’unica cosa che né i ladri né la dittatura hanno potuto cancellare.
A otto anni hai visto tuo padre per la prima volta. Mi racconti il vostro incontro?
Con tutta la sincerità, è stato traumatico. Non avendo mai visto una sua foto né sentito la sua voce, non sapevo cosa mi sarei trovata davanti. È stato traumatico perché ho incontrato un uomo bianchissimo con gli occhi verdi, che diceva di essere mio padre. Io, essendo mulatta come mamma, non ci credevo. Dopo ho fatto l’abitudine al nostro diverso colore di pelle, e non è stato difficile costruire il nostro rapporto, anche grazie a mamma che ha sempre parlato bene di papà e lo ha fatto amare a noi figli anche senza vederlo. Una donna di grande forza mia madre.
Cosa ti fa sentire a casa di questa grande Roma?
È la città dove sono cresciuta, che ha forgiato il mio carattere, il mio modo di pensare. La città dove ho studiato, dove ho fatto i capricci, dove ho costruito la mia carriera. La sento casa. Quando sono a Roma gli altri mi danno della tunisina, e quando vado in Tunisia mi danno dell’italiana. A Roma invece ho potuto costruire la mia identità interculturale, e non è solo romana o tunisina.
Il fumetto come chiave di comunicazione per raccontare cosa vuol dire essere musulmana e con il velo nel Belpaese. Come mai questa scelta?
A parte la passione per il disegno che ho sin dall’infanzia, il fumetto è l’unico tipo di arte narrativa in cui mi sono ritrovata. L’impatto che ha il fumetto sulle persone è impressionante. Le persone leggono volentieri un fumetto, attirate dall’arte, non solo per il disegno ma anche per la semplicità del linguaggio che viene utilizzato nel raccontare. Ci sono lettori che non condividono il mio pensiero, però hanno letto volentieri i fumetti. Non cerco di cambiare le opinioni delle persone, cerco di farmi ascoltare. Di parlare e dialogare. Un modo per favorire l’integrazione forse, ma preferisco chiamarla socializzazione. Un modo per conoscere e conoscersi. E l’ironia è un modo importante per convivere, abbattere muri di pregiudizi e stereotipi. Le facce buffe e le situazioni simpatiche per affrontare la quotidianità. Scrivo anche fumetti meno ironici, che parlano di attivismo delle donne contro la dittatura di Ben Alì, violenza sulla donna, diritti dell’infanzia nei Paesi in guerra, immigrazione e primavere arabe.
Indossi l’hijab con una disinvoltura spiazzante. Per scelta?
Assolutamente sì! Ho iniziato a indossarlo per scelta. Per tanti motivi, in realtà. Le motivazioni personali che mi hanno portato a fare questa scelta religiosa sono nate dal post 11 settembre. Essendo nata in una famiglia di attivisti e rivoluzionari, sono cresciuta con l’idea di difendere sempre la libertà d’espressione. Dopo l’11 settembre ero ancora piccola ma abbastanza cosciente da capire che stavamo vivendo un cambiamento sociale che avrebbe potuto vedere il velo e l’islam in maniera distorta, influenzata dalla politica e dalla disinformazione mediatica. Il primo giorno che ho iniziato a portare il velo avevo 11 anni, un bambino della mia età mi ha dato della “talebana, terrorista”, sono andata da lui e gli ho chiesto perché mi stava dicendo quelle cose e lui ha risposto con “non lo so!”. Da quel momento, informandomi qui e lì anche sugli aspetti religiosi, ho deciso di indossarlo sempre.
Hai realizzato un nuovo fumetto edito da Beccogiallo che hai presentato al Lucca Comics. Di cosa si tratta? Qual è la storia?
Il suo titolo è Sotto il velo, il primo libro cartaceo che pubblico. Un fumetto molto ironico, che parla semplicemente di una ragazza velata che vive la sua quotidiana nelle strade romane. Dalle frivolezze di una qualsiasi donna a prescindere dal velo, ai pregiudizi, alle scene di discriminazioni, alle battaglie quotidiane nel mondo del lavoro, nella società.
Margherita Bordino
Takoua Ben Mohamed – Sotto il velo
Beccogiallo, Padova 2016
Pagg. 112, € 15
ISBN 9788899016524
www.beccogiallo.org
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