Claude Cahun e il “soldato senza nome”
Scrittrice, fotografa e performer ante-litteram, Claude Cahun è una figura ancora poco conosciuta all’interno della storia dell’arte contemporanea. Fabiola Naldi racconta il suo percorso e spiega l’importanza della sua opera nel presente
Ho approfondito per la prima volta il lavoro di Claude Cahun quando, tra il 2001 e il 2002, preparavo la tesi di diploma per la Scuola di Specializzazione dell’Università di Bologna, lavoro poi allargato e definito in un libro intitolato I’ll be your mirror. Travestimenti Fotografici, pubblicato nel 2003. Anche oggi, a distanza di oltre quindici anni, il materiale a disposizione sull’artista francese risulta esiguo e spesso confuso, inesatto e controverso. Fatta eccezione per una biografia scritta da François Leperlier nel 1992, Claude Cahun, l’écart et la métamorphose, almeno fino alla seconda metà degli Anni Duemila si riscontrava una netta incapacità di definire questa autrice, lasciando intravedere una ristrettezza di fonti e l’impossibilità di recuperare l’intero corpus fotografico realizzato dalla Cahun, dagli anni parigini fino alla morte, avvenuta nel 1954. Il motivo fondamentale risiede nel fatto che la stessa autrice aveva camuffato la propria identità tramite l’uso quasi esclusivo del dispositivo fotografico (che la restituiva sempre diversa), al quale va aggiunta la poca bibliografia specifica sulla pratica del travestimento in fotografia.
IL TRAVESTIMENTO IN FOTOGRAFIA
Arriviamo quindi al centro sia della sua indagine, sia della generazione di appartenenza (Claude Cahun nasce a Nantes nel 1894): la possibilità di fuoriuscire dalle pratiche classiche del fare artistico, tipico delle Avanguardie di inizio secolo, per rendere possibile un’indagine espansa sia nei temi sia nei mezzi allora a disposizione. Alla base è la stretta relazione, ricca di rimandi storici e implicazioni comportamentali, instauratasi tra il travestimento fin dalla sua prima manifestazione (mi riferisco a Rrose Sélavy, il noto fotomontaggio di Marcel Duchamp del 1921) e la fotografia. L’ambiguità consapevole nell’atteggiamento del camouflage si affianca a quella dello specifico fotografico: viviamo un tempo in cui certi dibattiti sul dispositivo sono divenuti quasi obsoleti e risolti dalle stesse esigenze degli operatori culturali di trascendere i mezzi stessi a favore di possibilità espressive plurali. Nonostante questo, sono ancora molto amate, lette e studiate tutte quelle ricerche teoriche che hanno tentato di contestualizzare il mezzo tramite metodologie precise. Una, in particolare modo, quella che mi vede coinvolta, riguarda la Scienza della Cultura, internazionalmente conosciuta come Cultural Studies, che molto ha fatto per le teoria dei media. In questa occasione la possibilità di assimilare la fotografia a un hardware su cui poggia un sistema complesso di riferimenti e funzioni, ben si presta a considerare l’atteggiamento estetico del travestimento come la parte morbida e concettuale di un software che, inserendosi nella struttura portante, interagisce con essa. Quanto avviene da oltre un secolo nella sfera dell’illusione fotografica è una sinergia di opposti che interagiscono, una collaborazione estetica fra due realtà. Se consideriamo l’immagine fotografica come una traccia del reale, qualcosa che effettivamente è stato, possiamo allora affermare che il prodotto cui rivolgiamo la nostra attenzione parte comunque da un’esperienza reale, nonostante quella stessa immagine lasci trapelare il presupposto dell’illusione. Ecco perché Claude Cahun diviene il pretesto ideale per affermare tale posizione, permettendo oggi al suo lavoro di assumere nuove istanze pratiche e teoriche molto spesso adottate dalle nuove generazioni di artisti.
REALTÁ E FINZIONE
L’immagine migra in uno spazio simulato, investendo la dimensione interna di sogni, desideri e ideali, insinuando una “violenta” quantità di finzione in una fotografia “costruita” realisticamente. L’immagine fotografica, così, oscilla tra due posizioni stabili e definite, polo reale e irreale, nascondendo di volta in volta la propria identità e conducendo a ricordi e rimandi visivi di altra provenienza, pur lasciando la prova tangibile che qualcosa è effettivamente accaduto. Il travestimento dell’artista e la mediazione tecnologica del mezzo fotografico si accentuano divenendo speculari nell’istante stesso in cui emerge una precisa tensione dialettica fra i due opposti: l’enigmatica bifrontalità del medium da un lato e il mascheramento e la temporanea trasformazione di genere dall’altro, trovano la massima realizzazione in tale contesto, essendo entrambi azione e reazione dello stesso procedimento.
Giocando sul paradosso dialettico proprio della fotografia, l’artista transformer è sia il fotografo sia il soggetto fotografato che, nel doppio ruolo di artefice e artificio, crea intenzionalmente un corto circuito interno al rapporto tra operator e spectrum. Nel travestitismo fotografico le due esperienze scaturiscono dalla medesima pratica e, anche se l’artista fotografo non aziona manualmente lo scatto meccanico, rimane pur sempre l’ideatore concettuale di una messa in scena ben ideata: come dice Roland Barthes nella sua Camera Chiara “davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte”.
UNA NUOVA IDENTITÀ
Claude Cahun è la tangibile e illusoria testimonianza di quanto affermato, e la sua stessa esistenza si muoverà entro i territori avanguardisti della vita come l’arte, e dell’arte come la vita. All’anagrafe Lucy Renée Mathilde Schwob, figlia di Victorine Mary Antoinette Courbebaisse e di Maurice Schwob, noto giornalista e saggista proprietario del giornale Le Phare de la Loirel, la Cahun trova nella scrittura il primo “dispositivo” in cui allargare confini, urgenze e necessità espressive, firmandosi prima come Claude Courlis, poi per un certo periodo Daniel Douglas (pare in onore del perduto amore di Oscar Wilde) e infine come Claude Cahun che, come lei stessa ebbe modo di affermare, “rappresenta ai miei occhi il mio vero nome, piuttosto che uno pseudonimo”. Una sorta di terzo nome, un’ulteriore identità, in cui i confini fisici come quelli culturali andavano sempre assottigliandosi e confondendosi. Forse, e sopratutto per questo, il movimento Surrealista fu quello che lei più amò e sostenne perché vicino a risvolti anche psicoanalitici e simbolici. Il nome stesso Claude Cahun fu “coniato” in termini sia di dichiarata appartenenza sia di “pertinenza emotiva”: da un lato quindi la scelta omosessuale, dall’altro il rimando alla propria famiglia (quella della nonna paterna, cui era stata affidata a soli quattro anni al momento in cui la madre fu internata in una clinica psichiatrica). A quindici anni Claude si innamora di Suzanne Malherbe (divenuta poi anche sua sorellastra per il matrimonio fra il padre di Claude e la madre di Suzanne), promessa delle arti grafiche, scegliendola come compagna di vita e come musa ispiratrice con il “nuovo” nome di Marcel Moore. Conclusi gli studi universitari alla Sorbona, Cahun si trasferisce definitivamente a Parigi assieme all’amata Suzanne al 70 di Rue de Notre-Da me des Champs, nel quartiere artistico di Montparnasse. Gli anni più fecondi della sua attività furono quelli tra il 1918 e il 1938 trascorsi a Parigi dove, insieme a Moore, frequentò illustri artisti quali Philippe Soupault, Henri Michaux, Pierre Albert Birot, Roger Caillois, George Bataille, André Breton, Tristan Tzara, Salvador Dalì e Man Ray.
LA GUERRA E LA RESISTENZA
Dal 1914 in poi Claude Cahun realizza una serie di autoritratti nei quali fa capolino un sorta di proto travestimento in cui il corpo e il viso dell’artista assumono le sembianze di celebri donne del passato, impiegando maschere e costumi mitologici recuperati da abiti di scena teatrali. In questo periodo l’artista realizza veri e propri tableaux fotografici in cui si sperimenta il rifiuto di qualsiasi formalismo. Fra il 1932 e il 1938 Cahun diviene un’attivista all’interno dell’ambiente artistico parigino, ma, come lei stessa ebbe modo di capire e scoprire, l’ambiente surrealista era intrinsecamente maschile e nonostante Andrè Breton la definisse spesso “lo spirito più curioso di questi tempi” e la incoraggiasse a scrivere e pubblicare, la sua produzione sia artistica che letteraria rimase per molto tempo sconosciuta (l’intero corpus fotografico sarà pubblicato una sola volta nel 1930 in un’antologia, Aveux non avenus, corredata di didascalie e note). Nel 1938 Claude si trasferisce assieme alla compagna sull’isola di Jersey, preoccupandosi comunque di mantenere vivi i contatti con i surrealisti parigini. Durante la Seconda Guerra Mondiale le due artiste si uniscono alla resistenza, opponendosi fermamente al Nazismo: le loro scelte politiche (famosi i volantini che incitavano all’ammutinamento firmati “il soldato senza nome”) e il dichiarato lesbismo le faranno arrestare e condannare a morte dai tedeschi. Dal luglio del 1944 al maggio del 1945 vivono entrambe il tormento della prigionia, su cui grava l’angoscia di aver perso ogni bene: La Ferme Sans Nom, la loro casa sull’isola, viene saccheggiata e la produzione fotografica quasi completamente distrutta perché definita pornografica. Nell’immediato dopoguerra Claude Cahun tenta di riallacciare i rapporti col gruppo surrealista, incontrando più volte Andrè Breton e Max Ernst e progettando di tornare a Parigi, ma il desiderio non verrà esaudito vista la sua prematura morte nel 1954 a causa di un’embolia polmonare (Marcel Moore la seguirà poi nel 1972 decidendo di togliersi la vita).
Il desiderio di persistere nell’indagine di un possibile nomadismo identitario, orienta l’artista verso scelte formali e visive in cui l’elemento psicologico si fa sempre più importante ed essenziale. Un deliberato narcisismo unito a un lucido individualismo si fonde a scenari mitici o a contesti quotidiani dove l’elemento estraniante è lo stesso corpo di Cahun, trasmutato di volta in volta in identità aliene da sé. Tutta l’attenzione verte comprensibilmente su di una posa, uno sguardo o una messa in scena, che contestualizzano immediatamente l’atmosfera interna alla fotografia. Claude Cahun sfrutta le potenzialità duttili del mezzo per esplorare l’interno di un sé mobile che trova spazi di realizzazione e riflessione solo attraverso le metamorfosi scelte. L’androgino polimorfismo si scontra con i travestimenti più stravaganti (ancora una volta presi in prestito soprattutto dall’iconografia teatrale): vampira, ginnasta, zingara, indossatrice, angelo, femme fatale, tutte icone di riferimento sottratte temporaneamente ai contesti culturali più disparati.
TRA MACCHINA E MASCHERA
Il carattere distintivo della ricerca di Cahun non si rileva tanto nel passaggio da un genere all’altro, visto che i tratti di una femminilità mai completamente rifiutata permangono, ma è da ricercarsi nelle sfumature o nelle alternative di un’identità socialmente proposta come singola. Per Cahun ogni fotografia è la congiunzione fra macchina e maschera, ogni travestimento è l’elemento portante di una scena illusoria dove avviene la commedia. Quest’ultima, utile a ricostruire il ritratto alternativo, non solo ha una sceneggiatura, una scenografia e personaggi sempre nuovi, ma anche una regista – la fotografa o la sua compagna – che dirige l’evoluzione di una piccola storia romanzata. Il trucco, gli abiti, i gesti, le acconciature, gli oggetti che si esibiscono sugli abiti o che si tengono in mano di fronte all’obiettivo divengono la candida protesta di un’individualità ribelle.
Per Claude Cahun la fotografia rappresenta una fuga, l’idealizzazione e l’imitazione di destini altri e sognati: l’artista-fotografa, investita del ruolo alterno di scienziata e di alchimista, media le diverse componenti conscia della duttilità del mezzo utilizzato. Il travestimento e il camuffamento sono il veicolo migliore per permettere la realizzazione di un desiderio soffocato da obblighi sociali colpevoli di reprimere la libera espressività in funzione di una rinnovata operazione artistica: la fotografia traduce i sogni e i desideri, mentre il corpo dell’artista diviene protesi della ricerca e testimone “finito” di un viaggio schizofrenico nei ruoli altrui.
– Fabiola Naldi
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