Grandi musei. La sfida della gratuità
Che cosa succederebbe se i musei statali italiani fossero ad accesso gratuito? Quali ricadute avrebbe una tale scelta sull’economia e sulla politica culturale nostrana? Qualche riflessione e spunto, prendendo esempio dal modello inglese.
Il dato di fatto, e ne abbiamo parlato più volte proprio su queste colonne, è che, dopo anni di sostanziale immobilismo, ci troviamo in Italia in una fase nella quale i grandi musei pubblici (quelli privati sono nel frattempo andati avanti da soli) vivono momenti di moderato ma concreto afflato riformista. Ci sono insomma delle novità e non riguardano esclusivamente i nuovi direttori, ma interessano la governance di queste importanti istituzioni, la loro autonomia, i servizi che offrono, il ruolo che rivestono nelle città dove hanno sede.
Ma un’innovazione non ha senso se non è seguita da un’altra innovazione, un’altra ancora e così via. Per i nostri musei statali (e non solo) quel che sarebbe necessario in questo preciso momento è una serie di idee, di sperimentazioni, anche di errori, perché no. Cavalcare l’onda di una fase di cambiamento proponendo novità a rotazione capaci di innescare un movimento concreto. La prossima frontiera sulla quale si potrebbe lanciare una sfida? La gratuità dei grandi musei. Senza necessariamente copiare quanto fatto nel Regno Unito, l’Italia dovrebbe rendersi conto degli oggettivi vantaggi di questa misura. E potrebbe trasformare le molte sperimentazioni che negli ultimi anni stanno nascendo sul tema in un provvedimento nazionale più strutturato, dedicato ai musei statali ma facile da copiare anche per le regioni e soprattutto i comuni.
Il 1° dicembre 2016 si festeggeranno i 15 anni dall’introduzione di questa idea da parte dell’allora governo Labour inglese di Tony Blair, che sancì la gratuità di una cinquantina di grandi musei che si aggiunsero a Tate, National Gallery e British Museum, che erano free da tempo. Nel decennio successivo a quel 1° dicembre 2001, le visite ai musei pubblici britannici salirono di oltre il 150%. Si calcolò che, a fronte dei 45 milioni di sterline che la gratuità gravava in termini di investimenti statali annui, il ritorno su turismo e indotto era superiore a 300 milioni: ogni euro investito dal governo nei musei ne generava tre e mezzo. Anche per questo quell’idea non venne mai revocata nonostante le tante polemiche, le opinioni avverse, i terribili tagli al budget della cultura e i cambi di colore al governo di Londra. Ormai la gratuità dei musei è un asset dell’economia inglese: nessuno se la sente di cambiare.
In Italia il provvedimento sarebbe doppiamente significativo poiché potrebbe, al di là dei cascami operativi, risultare uno shock, uno stimolo, un’ulteriore scossa all’anchilosato mondo dei musei pubblici che il Governo sta cercando in un modo o nell’altro di svegliare dal torpore. La sensazione, insomma, è che potrebbe essere il momento giusto.
La prossima frontiera sulla quale si potrebbe lanciare una sfida? La gratuità dei grandi musei.
Chiaramente ingresso gratuito non significa perdita netta di introiti da parte dei musei. Anzi. Le mostre resteranno a pagamento e così, giustamente stimolati a far cassa, i musei saranno invogliati a produrne di interessanti e coinvolgenti, magari mettendo in ballo la propria collezione o valorizzando i depositi. I maggiori flussi di pubblico poi saranno attrazione per sponsor privati oggi presenti in dosi omeopatiche nel nostro sistema museale. Poi le visite scolastiche, quelle organizzate, i gruppi e i tour guidati saranno ancora a pagamento e così i musei saranno sollecitati a migliorare la qualità di questi servizi.
Ma cambiare la politica su prezzi e tariffe significa in senso più alto modificare il ruolo civico del museo. Accettare che questo smetta di essere un fortilizio quasi impenetrabile di studio ed erudizione, ma si trasformi un’altra nuova piazza per la città con tutte le caratteristiche che una piazza deve avere. Iniziare a ragionare e a pensarsi come parte di un sistema economico di intrattenimento culturale e di accoglienza a tutto tondo, in dialogo con gli alberghi, con i tour operator, con chi di mestiere gestisce i flussi dei visitatori. Uno sprone a migliorare dunque i servizi (bar e ristoranti in primis, ma anche bookshop, store di design, laboratori, iniziative collaterali) così come gli orari; una spinta a rinnovare atteggiamenti superati (il divieto di far foto!) e ad andare oltre sciocche tare mentali dal punto di vista della comunicazione: perché se ti apri a tutti e non solo ai pochi che decidono di pagare per venire da te, allora devi cambiare il modo con cui parli verso l’esterno. Un semplice provvedimento del costo di poche decine di milioni di euro potrebbe trasformare i nostri musei in protagonisti del tessuto economico e sociale delle città, conferendo loro ancora più forza per ottemperare al compito principale che gli è dato: promuovere, esporre, sviluppare, tutelare, fare ricerca sulla cultura e sul patrimonio artistico pubblico.
Ma cambiare la politica su prezzi e tariffe significa in senso più alto modificare il ruolo civico del museo. Accettare che questo smetta di essere un fortilizio quasi impenetrabile di studio ed erudizione, ma si trasformi un’altra nuova piazza per la città con tutte le caratteristiche che una piazza deve avere.
Il risultato finale non potrà che essere, a fronte di una piccola perdita economica sulla bigliettazione (visto anche il numero degli ingressi tutt’altro che entusiasmante), un grande recupero di introiti da tutto l’indotto. Chiaramente per trarre benefici di questa natura occorrono professionisti che sappiano mettere a sistema le nuove condizioni, occorre un’organizzazione e un cambio di prospettiva che si può ottenere solo introducendo persone nuove dentro una macchina che si rinnova radicalmente. Qualche esperimento in tal senso non è mancato negli ultimissimi mesi. A Roma, ad esempio, i Musei Capitolini hanno reso gratuita non la loro sede principale e ultravisitata sul Campidoglio, ma alcuni musei minori del network; e sul modello della Tate, al Maxxi si parla di rendere aperta a tutti la collezione, limitandosi a far pagare l’accesso alle mostre. È un segnale di tempi maturi per una scelta così dirompente?
È naturale che il provvedimento non potrebbe valere per tutti i nostri musei pubblici: Uffizi e Galleria Borghese, giusto per fare due esempi, non potrebbero sopportare una scelta simile. Ma tolti pochi luoghi che hanno un numero di visitatori esorbitante rispetto ai metri quadri effettivamente disponibili, rimane la restante percentuale schiacciante di musei statali che potrebbero avere solo benefici e contribuire in maniera più che concreta a un attesissimo e quanto mai alla portata cambio di prospettiva.
Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #34
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