Montanari VS Franceschini. A Otto e Mezzo scontro tra due modelli culturali

Nello studio di Lilli Gruber, su La7, si discute di politiche culturali, di musei, di Sovrintendenze. Sul ring due personaggi lontanissimi, per visioni, per background, per militanza. Un Ministro e uno storico dell’arte a confronto: spunti utilissimi per riflettere su temi cruciali. A due mesi dalle elezioni.

Scontro infuocato, lo scorso 15 gennaio, nel salotto di Otto e Mezzo. Si parla di beni culturali e in studio l’aria è tesa, fin da subito. Intorno al tavolo ci sono il Ministro Dario Franceschini, esponente di punta del Pd, e lo storico dell’arte, docente ed editorialista Tomaso Montanari, che del Pd è invece nemico giurato: antirenziano doc, da sempre al fianco di illustri intellettuali come Salvatore Settis e Gustavo Zagrebelsky, vicino alla sinistra più radicale (da Possibile a Sinistra Italiana), tanto da essere scelto come consigliere per la cultura del sindaco di Sesto Fiorentino Lorenzo Falchi, a giugno 2017 si era lanciato in un’avventura politica nuova (insieme ad Alnna Falcone), il movimento civico Alleanza Popolare per la Democrazia e l’Uguaglianza, nato con un incontro al teatro Brancaccio di Roma. Esperienza che avrebbe dovuto unire i rappresentanti dei vari partiti della sinistra scissionista e antigovernativa (da Mdp agli stessi Civati e Fratoianni) e che invece naufragò nel giro di pochi mesi  sulla scia dei primi attriti.
Insomma, come sottolinea subito Franceschini, nel rispondere alla prima raffica di attacchi, il duello non è tra un ministro e uno storico dell’arte, ma tra due “avversari”. Basta mettere i puntini sulle i: le critiche di Montanari sarebbero tutto fuorché il frutto di una riflessione pacata e non faziosa. La prima mossa dialettica del “Ministro dei Mali Culturali” – così lo chiama affettuosamente il professore – punta dunque a indebolire ogni affermazione dell’altro, potenzialmente delegittimata dal fantasma dell’ideologia o della contesa politica.

MENO VISITATORI È MEGLIO. SNOBISMO O TUTELA?

Il piano della discussione è proprio quello delle politiche culturali messe in campo dai governi Renzi e Gentiloni: per Montanari un vero fallimento, al netto dei clamorosi aumenti di visitatori di musei e siti archeologici. Dato positivo, ammette, ascrivibile però ad alcune congiunture internazionali, prima tra tutte lo spostamento dei flussi turistici dalle zone a rischio terrorismo verso la più sicura Italia. Ma i grandi numeri, di per sé, sono davvero un fatto significativo e sempre positivo? Anche no, sostiene lui. Troppa folla fa male alle opere d’arte, penalizza l’esperienza del visitatore e riduce il tutto a un fatto di incassi, di quantità. Insomma, bene se la gente va al Museo, ma senza esagerare. Che detta così suona come la più snob delle posizioni. Un eccesso di conservatorismo e di elitismo resta, nell’appassionata crociata di Montanari, ma l’accento sulla qualità della proposta culturale, sul primato della vocazione scientifica, sul valore della conoscenza e sul senso profondo della permanenza in uno spazio museale, ha il suo perché: i numeri, da soli, non bastano a definire il successo di una strategia.

Reggia di Caserta

Reggia di Caserta

Apriti cielo, poi, se i progetti di sviluppo passano anche da operazioni commerciali, utili a reperire fondi: l’esempio della Reggia di Caserta, che recentemente (in un’area separata dalle sale espositive) ha ospitato un matrimonio a fronte di un lauto fee, diventa il caso studio perfetto. Montanari – in polemica col Ministro – boccia  simili contaminazioni tra business e patrimonio, colpevoli di desacralizzare i luoghi e soprattutto di metterne a rischio i tesori. “Passa il concetto che i ricchi possono fare qualsiasi cosa” spiega, incurante del fatto che proprio grazie ai soldi dei “ricchi” si riescono a riqualificare beni pubblici che poi tutti, poveri inclusi, fruiscono.

COLPO DI GRAZIA ALLE SOVRINTENDENZE?

Altro punto dolente è quello delle Sovrintendenze, che Franceshcini avrebbe del tutto smantellato, a discapito del patrimonio. Falso, spiega il Ministro: si è trattato solo di alleggerire e sburocratizzare, affinché una sola soprintendenza di riferimento per ogni bene – e non tre – consentisse di dare risposte più veloci e organiche, non paralizzando progetti e azioni culturali con continui lacci, lacciuoli, divieti, contraddizioni e lungaggini varie. Che in effetti è, storicamente, un problema generale della mummificata e intricatissima burocrazia statale italiana.  Unire semplificazione dei processi e cura, rapidità e responsabilità, autonomia e controllo, resta una sfida importante.

Dario Franceschini

Dario Franceschini

E a proposito di autonomia, anche su questo fronte Franceschini rivendica le sue scelte: trasformare i grandi siti e musei nazionali in macchine indipendenti, capaci di autogestirsi a livello di governance e di economie, è stata una grande rivoluzione. Un modello – aggiungiamo noi  – che diventa spunto e anche per le amministrazioni locali.
A tutto questo si aggiungono il tentativo di aumentare le risorse (+58% rispetto al passato, ma il dato generale resta misero: solo lo 0,29% del bilancio dello Stato è investito in cultura), un costante lavoro di ricerca del pubblico (le prime domeniche del mese gratuite vanno in questa direzione, ma anche le buone pratiche di produzione e valorizzazione) e una politica di assunzioni da parte del Ministero, che ha interessato 1300 professionisti (archeologi, storici dell’arte, bibliotecari, antropologi, etc.).

DUE MONDI A CONFRONTO

Il match moderato da Lilli Gruber ha insomma restituito l’immagine di un’Italia doppia, settata su due frequenze radialmente opposte: da un lato Tomaso Montanari, affezionato ai temi della conservazione (ottenuta non si sa con quali risorse), simbolo di un mondo accademico piuttosto ingessato, assai elitario, difensore di un’immagine tradizionale del museo (luogo di meditazione e di formazione), diffidente nei confronti di contaminazioni col mercato e col privato, del tutto disinteressato al concetto di cultura come generatore di economia. Dall’altro c’è Dario Franceschini, che invece incarna un’idea di cultura al passo coi tempi, sensibile all’innovazione, disposta a sodalizi virtuosi con sponsor e mecenati, particolarmente attenta alla valorizzazione e alla promozione, proiettata verso una dimensione popolare, d’apertura e di coinvolgimento allargato.

Lo spot di Tomaso Montanari per il No al Referendum Costituzionale

Lo spot di Tomaso Montanari per il No al Referendum Costituzionale

E intanto, tra discorsi alti e valutazioni tecniche, la politica resta il cuore del discorso. Mai scissa da azioni e riflessioni culturali. Politica che poi è anche campagna elettorale. Inevitabilmente. E in chiusura Montanari ci tiene a commentare: il M5S, pur penalizzato da problemi di metodo e da alcune posizioni ambigue, resta “l’unica forza che si propone di ribaltare un sistema obiettivamente ingiusto”, l’unica capace di parlare “a un pezzo di paese che la sinistra ha abbandonato”. Endorsement a Grillo o un monito alla sinistra italiana, tutta da ricostruire?  Entrambi, probabilmente. Ne sa qualcosa Piero Grasso, leader di Liberi e Uguali, che in queste ore – in conflitto con Laura Boldrini – non eslcude una possibile alleanza a urne chiuse coi Cinque Stelle. Ed è già un mondo nuovo che si apre. Mostruoso per alcuni, strategico per altri. Certo il match su La7 qualche indizio lo ha offerto, rispetto a ciò che potrebbe cambiare dopo il voto del 4 marzo: in fatto di cultura e non solo.

Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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