Soprintendenze e organizzazione. L’editoriale di Stefano Monti
Stefano Monti approfondisce assetti, compiti e gestione delle soprintendenze italiane, prendendo come esempio quella di Venezia. Rilevando un netto deficit organizzativo all’interno del settore.
Ancora oggi si parla di una dicotomia tra valorizzazione e tutela. E ci sono persone, leggi Montanari, che fanno della difesa delle soprintendenze il perno della propria politica culturale. Questo non fa bene alla nostra cultura. È ora che le soprintendenze si avviino a un giusto dimensionamento (senza ulteriori riforme) tra obiettivi, personale e procedure.
Senza una coerenza fra questi tre elementi, avremo sempre un rapporto conflittuale con questi soggetti, che di fatto stanno seguendo la stessa deriva dei sindacati: per anni hanno svolto un ruolo fondamentale per il nostro patrimonio, ma poi si sono trasformati in centri di potere para-politico, agendo con sempre minore trasparenza, sempre più lentezza e sempre meno coerenza con le esigenze del tessuto sociale e di ciò che erano chiamate a tutelare.
Il rischio che si corre quando si affronta una riflessione di questo tipo è di essere particolarmente generici. Ragioniamo quindi con un esempio concreto: l’attuale riforma del Ministro Franceschini ha organizzato l’apparato dislocato sul territorio nazionale in 39 Soprintendenze Uniche e due Soprintendenze speciali.
Gli obiettivi dichiarati della riforma sono volti a ottenere una migliore efficienza dell’operato delle singole soprintendenze al fine di minimizzare l’attrito che esiste, ed esiste, tra le stesse e gli operatori del settore.
“In questo marasma generale, emerge poi un altro fattore, altrettanto grave per un’organizzazione: quando i flussi di lavoro sono così sproporzionati, si tende a creare “confusione” e confusione significa anche impossibilità di stabilire dei canali di procedure decisionali verificabili”.
Prendiamo dunque una soprintendenza a caso e prendiamo quella di Venezia, che si suppone possa essere una delle più organizzate (sia per la rilevanza strategica della città per il patrimonio culturale italiano, sia perché il Veneto rappresenta una delle Regioni più efficienti sul versante nazionale).
Il lavoro della Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio, per il Comune di Venezia e Laguna, con sede a Venezia, è diviso in sette aree funzionali e, rispettivamente:
Organizzazione e Funzionamento;
Patrimonio Archeologico;
Patrimonio Storico-Artistico;
Patrimonio Architettonico;
Patrimonio Demoetnoantropologico;
Paesaggio;
Educazione e Ricerca.
Per ognuna di queste aree sono stabiliti, ovviamente, dei ruoli, dei responsabili e dei piani di servizio.
Se quanto espresso dal sito della soprintendenza stessa è veritiero, l’organizzazione del lavoro di tutti i settori della Soprintendenza prevede 116 posizioni a fronte di 49 tra funzionari, assistenti e collaboratori.
Ciò vuol dire che, in media, ogni dipendente della soprintendenza svolgerà più di due funzioni durante la propria giornata lavorativa. Ora, questo è possibile, e accade quotidianamente nella maggior parte delle aziende (pubbliche o private che siano), ma deve essere anche proporzionato alla mole di lavoro.
Immaginiamo, ad esempio, la vita quotidiana della signorina Chiara Faedo, che svolge una funzione di assistente alla fruizione, accoglienza e vigilanza presso la soprintendenza. La già citata signorina svolge questo ruolo presso le aree funzionali 1, 3, 4, 6 e 7, e più precisamente:
Organizzazione e Funzionamento: Segreteria del Presidente;
Patrimonio Storico Artistico: Collaboratori;
Patrimonio Architettonico: Collaboratori per Architetti Cavaggioni, Gargiulo e Torri;
Paesaggio: Collaboratori per Architetti Cavaggioni, Gargiulo e Torri;
Educazione e Ricerca: Ufficio Catalogo.
Come lei, a coprire ruoli distinti sono la maggioranza dei dipendenti perché, fatta eccezione dei 14 su 49 che svolgono un solo ruolo, tutti gli altri ricoprono almeno due posizioni.
Dal punto di vista gestionale questo è possibile, se il tutto si riesce a coniugare con un flusso di lavoro adeguato ma, come anche Settis ha ampiamente illustrato nel suo Abbecedario, la cosa non è affatto così.
“Si decidano dunque esatti flussi di lavoro o idonei staff, perché se si dovesse valutare la soprintendenza come si valuta un’impresa privata, le conclusioni cui si giungerebbe sarebbero due: o lavoro nero (non dichiarato) o impresa destinata a ridimensionarsi o fallire (perché non in grado di far fronte alle richieste)”.
Allora parliamoci chiaro: come ci aspettiamo che possano svolgere al meglio tutte le funzioni che sono chiamati a ricoprire, se anche le cassiere al supermercato (senza nulla togliere alle loro mansioni) vanno in difficoltà quando devono lasciare la postazione per andare a pesare un’insalata?
Come possiamo immaginare che il flusso di lavoro che questa soprintendenza richiede possa essere efficacemente svolto in questo modo?
È questo il peggiore dei mali della nostra organizzazione ministeriale: da un carico di lavoro inadeguato derivano direttamente tre conseguenze:
il personale non riesce a licenziare efficacemente tutte le pratiche che gli vengono assegnate;
coloro che si relazionano con la soprintendenza percepiscono esclusivamente il ritardo (spesso inverosimile) che si trovano a dover sopportare;
il personale si sente doppiamente frustrato perché deve trascorrere parte del proprio tempo a giustificare che, al di là della percezione esterna, lavora sul serio.
In questo marasma generale emerge poi un altro fattore, altrettanto grave per un’organizzazione: quando i flussi di lavoro sono così sproporzionati, si tende a creare “confusione”, e confusione significa anche impossibilità di stabilire dei canali di procedure decisionali verificabili. Questo porta, ci piaccia o meno, alla centralizzazione di un potere decisionale e alla fallibilità dello stesso, soprattutto se viene svolto all’interno di un’organizzazione di questo tipo.
Questi sono i problemi principali delle nostre soprintendenze. Se non riusciamo a far fronte a essi, non ha assolutamente senso continuare a sperare che qualcosa cambi.
Si decidano dunque esatti flussi di lavoro o idonei staff, perché se si dovesse valutare la soprintendenza come si valuta un’impresa privata, le conclusioni cui si giungerebbe sarebbero due: o lavoro nero (non dichiarato) o impresa destinata a ridimensionarsi o fallire (perché non in grado di far fronte alle richieste).
Se non sblocchiamo questo deficit organizzativo, ci sarà sempre una dicotomia fra tutela e valorizzazione. E se i fautori della valorizzazione iniziano a richiedere la tutela dei tutelanti, vuol dire che stiamo proprio messi male.
‒ Stefano Monti
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