Cosa ti ha portato a New York?
Sono venuta negli States dopo aver vinto una borsa di studio dell’Art Institute di Chicago per seguire un master in Arts Administration and Policy. Una volta completato il master sono volata a New York per lavorare al MoMA nel dipartimento di Digital Media come project manager e poi come assistant director. Il motivo per cui sono rimasta a lavorare negli Stati Uniti è che, con la mia laurea in Economia per l’arte alla Bocconi (sono stata tra i primi a laurearmi in quel corso), paradossalmente non avrei potuto lavorare in musei italiani, dove la formazione che viene privilegiata è quella umanistica, anche in ruoli non curatoriali.
Facci un quadro del tuo lavoro.
Lavorare al MoMA per me è sempre stato un sogno, soprattutto per la vicinanza con opere così importanti e per l’idea di potere lavorare per fare conoscere e apprezzare l’arte contemporanea a sempre un maggior numero di persone. Inoltre, l’utilizzo delle nuove tecnologie nelle istituzioni culturali è un ambito in continua evoluzione e una sfida per supportare l’esperienza nel museo senza sostituirsi alla visita. Dopo sette anni al MoMA, il mio lavoro cambia ancora ogni giorno e non ci si annoia mai.
Come si lavora?
Il lavoro negli Usa è impegnativo ma efficiente e mi sono sempre sentita valorizzata e apprezzata. Inoltre il livello di professionalità tra capi e colleghi è molto alto. C’è molto rispetto per il lavoro e le idee altrui. C’è interesse ad ascoltare punti di vista diversi. Non è semplice inserirsi qui per la prima volta, bisogna capire il sistema e il sogno americano non è così romantico come si crede oltreoceano. In Italia abbiamo un sistema educativo e sanitario invidiabile, per non parlare delle ferie e del congedo per maternità, tutti elementi che non dovrebbero essere sottovalutati!
Percorsi speciali per italiani?
Non conosco programmi di inserimento per gli italiani. Il percorso di inserimento è molto individuale, anche se ci sono reti informali di italiani, soprattutto composte da chi trascorre un po’ di tempo a New York, con permanenze di tre mesi in tre mesi per questioni legate alla difficoltà a ottenere visti permanenti.
New York e i luoghi della cultura.
Negli Usa e soprattutto a New York c’è un grande ottimismo e voglia di cambiare lo status quo, un appetito per nuove idee che ho trovato a fatica in altri posti, e questo ha un grande fascino e attrae talenti. Chi ha voglia di fare ha l’impressione di potere provare a lanciarsi in qualsiasi avventura senza troppa resistenza. In particolare New York è una metropoli dove l’essere diversi è valorizzato e per forza di cose è una città che è aperta al cambiamento e in continuo divenire.
Dove si concentra questa attitudine al cambiamento?
Ad esempio al New Inc, l’incubator del New Museum. Mi piace anche riscoprire quartieri che cambiano nel giro di pochi mesi, come Coney Island, con un passato come centro del divertimento del Paese e varie fasi di declino e cambiamento. Il Cooper Hewitt Museum of Design ha da poco riaperto al pubblico dopo un lungo restauro e, ora più che mai con la sua “interactive pen”, mostra come l’Internet delle cose sia al centro anche del panorama culturale. Al MoMA sono molto fiera dell’audioguida che abbiamo sviluppato internamente per iPhone e che può essere scaricata gratuitamente sul proprio dispositivo fuori e dentro al museo. Però New York può essere molto stressante, e quindi bisogna avere delle strategie per rilassarsi ogni tanto: per prendersi una pausa la cosa migliore è fare un giro delle piccole librerie di quartiere di Brooklyn o una passeggiata a Prospect Park o al giardino botanico.
Cosa pensi guardando l’Italia? Cosa suggerisci ai colleghi che sono rimasti qui?
Ne conosco pochi, purtroppo. Suggerisco di cercare il più possibile di lavorare dall’interno per creare apertura e flessibilità al cambiamento, perché solo così potremo continuare a essere un Paese rilevante, e la cultura può essere assolutamente al centro di questo processo. Dall’estero siamo visti come un Paese con un grande potenziale, quindi non dobbiamo lasciare che la burocrazia o il pessimismo ci impediscano di soddisfare queste aspettative. Spero sempre che si aprano reali vie di scambio fra l’Italia e l’estero, e non solo in uscita.
Neve Mazzoleni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #27
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati