Pecci di Prato. Lettera aperta del direttore uscente Fabio Cavallucci
È una storia breve ma già lunghissima, quella del nuovo corso del Museo Pecci di Prato. Perché dalla nomina a direttore di Fabio Cavallucci è successo di tutto, nel bene e nel male. Dopo l’intervista a Irene Sanesi, presidente dell’organo che amministra il museo, la parola passa al direttore uscente. Fabio Cavallucci, che ci ha inviato questa lettera aperta.
So di apparire pignolo, noioso, magari anche astioso (il che non è), ma non posso lasciar passare alcune imprecisioni e mezze verità che ho letto nell’intervista di Irene Sanesi qualche giorno fa su Artribune e pertanto rispondo, per una corretta informazione, qui sulle stesse pagine.
La prima e più eclatante affermazione che a mio avviso non rispecchia la verità è che la Fondazione deve comportarsi con trasparenza e dunque al termine dell’incarico di tre anni del direttore doveva procedere a un nuova call. Se così fosse, ora bisognerebbe spiegare anche al nuovo direttore che sta per essere nominato, che magari viene dall’estero e si trasferirà a Prato (con tutto ciò che un trasferimento comporta in termini organizzativi e relazionali) che, benché il bando a cui ha partecipato (allo stesso modo del mio) preveda una possibilità di proroga, al termine del mandato sarà irrimediabilmente salutato, salvo magari rimettersi in gioco in una nuova call.
Questo argomento, a mio sapere, non è mai stato presente nelle discussioni dei mesi scorsi che hanno letteralmente diviso il Consiglio. Irene Sanesi a questo proposito poteva dire che ha preferito assecondare la richiesta del Comune di Prato, che voleva a ogni costo cambiare direttore (il che è la verità), oppure che lei stessa l’ha voluto, ma non raccontare che si tratta di un normale avvicendamento burocratico.
Il secondo punto su cui vorrei ribattere riguarda il successo dell’apertura. È ovvio che ci vuole sempre una squadra per vincere, che la qualità dello staff è importante, ma mi spiace che si tenda a minimizzare il risultato di riuscire a portare 65mila persone in un luogo periferico, praticamente senza servizi pubblici, con una mostra d’arte contemporanea, anche se in un nuovo edificio. Per farlo è stata elaborata una strategia complessiva, cominciata molto tempo prima, quando la Fondazione nemmeno esisteva. È stata fatta una mostra, La fine del mondo, il cui intento era esattamente quello di essere allo stesso tempo sperimentale, con opere di artisti d’avanguardia, ma anche popolare, e questo intento è riuscito, dimostrando che l’arte contemporanea, se si vuole, può essere più vicina alla gente. È stata data al Centro una mission, inteso come centro delle arti, che va nella direzione di realizzare oltre che mostre, anche conferenze, performance, proiezioni di film, e tutto ciò ha creato quella vitalità che si è potuta vedere fino ad ora. Non si rende giustizia alla realtà nel dire che “15.000 persone nella giornata del Grand Opening sono dovute alla decisione della Fondazione di lasciare l’ingresso gratuito“.
Quanto al budget e alla capacità di tenere sotto controllo i conti – vorrei aggiungere, anche di risparmiare – beh, attribuire tutti i meriti a se stessa non solo non è elegante, ma non è nemmeno vero, come se non fosse a conoscenza delle ore che ho trascorso a cercare di ridurre i costi, a fare tagli, a chiedere sconti, a controllare e a far controllare fatture e spese fino all’esaurimento. Se ci sono state alcune centinaia di migliaia di euro di fondi disponibili da usare quest’anno, un po’ del merito sarà stato anche mio.
Quanto alla mostra di Andy Warhol, che era – lo dico per chi non lo sapesse – non una banale mostra di opere pittoriche e serigrafie, ma una mostra sull’artista film maker, con la quale avrei voluto rilanciare il Centro a fine anno per lasciarlo al prossimo direttore nel pieno delle sue attuali possibilità, spiace che venga intesa come un mio interesse: “Cavallucci scadeva ad aprile scorso e poteva tranquillamente lasciare con un bilancio sicuramente positivo“. Credo, in realtà, che fosse un preciso interesse del Centro continuare a essere attrattivo per un largo pubblico e cercare di fidelizzarlo.
Che i soldi ci fossero lo dimostra la decisione del Consiglio di poche sere fa, una volta sfumata la mostra di Warhol, di investire metà di questo tesoretto in iniziative della fine di quest’anno e l’altra metà nella mostra di Mark Wallinger, che però è una mostra del prossimo anno. Il che – lo dico ancora per chiarezza verso i lettori – non vuole dire che il Centro sia ricco, solo che negli anni di chiusura per lavori si sono fatti dei risparmi che ancora consentono di sviluppare un programma di qualità, il che purtroppo non sarà per il futuro, se non si trova il modo di ampliare le risorse annuali.
Se vedrò che il Centro funzionerà nei prossimi mesi e anni, sarò solo felice, ma non posso consentire, né ora né in futuro, di dire cose non vere sul mio lavoro. Con l’occasione faccio a Irene, al Consiglio e al futuro direttore i migliori e più sinceri auguri di grande successo.
– Fabio Cavallucci
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