Professione performer. Intervista a Hermann Nitsch
Dopo il focus sulla performance e l’intervista a Marina Abramović, oggi diamo voce a un altro grande protagonista delle arti performative.
La mostra dell’Art Forum Würth di Capena [allestita fino al 26 gennaio 2019] espone la sua opera come un’importante tappa per documentare un percorso dell’arte austriaca che parte da Gustav Klimt e arriva ai nostri giorni. Quanto sente di esprimere della cultura austriaca (o più estesamente mitteleuropea) e dei suoi caratteri?
Penso che in futuro non ci sarà più un’arte nazionale, la globalizzazione porterà a un’arte mondiale. La mia esperienza artistica proviene comunque dalla cultura austriaca, dalla quale sono stato influenzato. Difatti per me sono stati sempre importanti Mozart, Bruckner, Mahler, Schönberg, che non si può considerare davvero austriaco, o Beethoven, che è tedesco. Io vengo dunque da una tradizione culturale che riconosco, ma sono certo che in futuro si parlerà soltanto di arte mondiale.
Le sue “azioni”, a partire dagli Anni Sessanta, hanno sconvolto il mondo dell’arte e non solo. Oggi, attraverso che cosa si può scandalizzare e colpire il pubblico?
In ogni epoca, per arrivare al pubblico bisogna fare un’arte intensa, toccante. C’è stato sempre il bisogno di fare un’arte profonda, come nel passato, così nel futuro.
Molta arte di oggi, si vedano le esperienze dei nuovi media, ambisce a essere “totale”, coinvolgendo in alcuni casi diversi sensi dello spettatore. Ciò viene realizzato attraverso l’uso di nuovi media, che inglobano il fruitore e lo rendono protagonista, e spesso si può trattare di una dimensione collettiva dell’esperienza, esattamente come nel suo “Teatro”. C’è una distanza tra l’Azionismo storico e il coinvolgimento delle percezioni del fruitore di oggi, che si interfaccia con le tecnologie dei nostri tempi?
Ogni epoca ha la sua arte. Per me, allora, era importante risvegliare tutti i sensi dello spettatore, scendere nel profondo della sua attività sensoriale. Per farlo ho deciso di toccare la carne, sentire gli odori; lavorando con il colore, il sangue, la frutta. Adesso questi sensi vengono risvegliati dalla tecnologia, e già all’epoca anche io ho utilizzato le tecnologie, documentando le mie performance con il video, o usando i sintetizzatori nella mia musica. Il futuro sta andando verso queste soluzioni, la virtualità sarà il nuovo sviluppo… Io voglio la tecnologia nell’arte! Proprio recentemente ho esposto a Verona la videoinstallazione Stanza della Sinestesia (2014) in una mostra dedicata al mio teatro.
I futuristi e i dadaisti furono tra i primi a realizzare azioni artistiche collettive dove, col fine di un maggiore coinvolgimento di chi vi partecipava, si utilizzavano diversi media artistici, cercando di abbattere il confine tra lo spettatore e l’attore.
Nel mio teatro effettivamente non ci sono spettatori, ma solo attori; e non mi riferisco soltanto a chi partecipa all’atto performativo, ma anche a chi vi assiste, che non lo fa certo passivamente, perché prova inevitabilmente delle emozioni.
Oltre al Teatro delle Orge e dei Misteri, la sua azione artistica si è sempre concretizzata nella pittura, realizzata con materia ri-generata durante l’atto performativo: un rito di purificazione che prevede una conscia accettazione di un percorso, un cammino “teologico” del quale si privilegia però l’adesione alle forme, ridotte a riferimenti culturali, più che l’essenza, la morale fondante del rito insomma. Lei sintetizza nella pittura la sua volontà creativa e spirituale?
La questione è molto complessa. Credo che non ci sia una distinzione tra lo spirito e il corpo. Lo sviluppo dei sensi è un processo anche mentale, la mia pittura è la grammatica di una performance messa sulla tela, un prodotto che viene fuori, quasi spontaneamente. Dipingere per me è un’occasione spirituale per rielaborare l’esperienza sensoriale, toccando la sfera della consapevolezza, e per questo è un vero rituale spirituale.
Il Teatro delle Orge e dei Misteri condensa miti e riti della cultura euro-mediterranea e inscena un dramma che non ha niente di rassicurante, già materia di censura. Ma le azioni che si svolgono sono in realtà calcolate, ripetute, rituali, e quindi non davvero inquietanti. Dobbiamo solo sporcarci un poco le mani. Potrebbe essere questo un compromesso chiave della nostra esistenza?
L’arte è natura, e tramite il processo artistico si crea una nuova natura, contribuendo a sottolineare, o meglio intensificare, l’atto stesso della creazione. La morale, le censure e lo Stato fanno sì che noi non possiamo davvero esprimerci del tutto, in modo completo, e per questo siamo costretti a reprimere molti aspetti della nostra vita che hanno invece la necessità di riemergere. Gran parte della nostra vita è impulso. Attraverso il mio lavoro cerco di farlo esprimere, di farlo venire fuori, come già in fondo succede con la tragedia greca o con Shakespeare.
In uno scritto del 1961 lei ha parlato di “abreazione” [la scarica emozionale in funzione catartica, N.d.R.] attraverso l’azione artistica. L’arte può assolvere questo compito? L’arte può aiutare l’uomo al pari della religione, riportandolo in pace con se stesso?
Mi interesso molto di religioni, ma non ne professo nessuna. Credo alla creazione, ho fede nel creato, nell’essere, in ciò che ci circonda, vale a dire la vita. Il mio lavoro può essere interpretato come una religione, è vero, ma in senso laico. In effetti, sento l’azione della pittura come un rituale, poiché in fondo è un atto creativo che si ripete. Come lei accenna, il mio lavoro ha difatti molto ha a che fare con la psicoanalisi e con l’inconscio: credo che la mia pittura sia per me la forma più semplice di abreazione. Così il mio teatro, che nel suo sviluppo segue un rituale, dove l’inconscio può diventare conscio. Il mio teatro aspira all’abreazione, affinché gli istinti repressi si liberino.
Un teatro che arriva direttamente al fruitore, come nel “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud. Che cosa resta oggi del suo messaggio?
Penso che il suo lavoro sia ancora molto attuale. Già profetico, come Eliogabalo o l’anarchico incoronato (1934), e molti suoi testi vengono tuttora messi in scena.
Al di là della finzione delle arti visive, noi oggi abbiamo fatto l’abitudine alla violenza, ai toni forti. Ma forse più gravi sono la pornografia dei sentimenti, che solo esteriormente non è crudeltà, e il sensazionalismo di certa stampa.
L’umanità ha sempre sentito la crudeltà, l’ha vissuta e ne è stata spettatrice: si pensi agli spettacoli che si facevano nel Colosseo, proprio qui a Roma, o ancora al medievale Teatro dei Misteri. Questa violenza repressa è in realtà la vita, la pulsione. Parlo delle pulsioni inconsce, negative, quelle che conducono ai conflitti e alla violenza, che sono in sostanza incanalate verso una direzione sbagliata. La vita e le energie devono tramutarsi in qualcosa di positivo. Attraverso il mio teatro cerco di costringere la mano invisibile che turba l’inconscio verso un processo di abreazione, allo scopo di prendere consapevolezza di questo lato oscuro.
Perché soltanto conoscendolo si può cercare di neutralizzarlo.
Sì, ma vorrei chiarire ancora due assunti: la vita e la sua energia sono sempre buone, però a volte si usano nel modo sbagliato, e diventano malate, e ci portano a intenzioni come quelle che ci spingono a uscire fuori e fare la guerra. Nel mio teatro uso queste energie in modo costruttivo, e questa “crudeltà” non è dunque sbagliata, è soltanto intensità, ed è pure un fiore che cresce verso l’alto. La resurrezione è realtà, tuttavia la realtà è intensità, e questo è il mio teatro.
‒ Calogero Pirrera
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #40
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