Villa Croce, un museo felice. Intervista al direttore Carlo Antonelli
Parola al neo-direttore del museo genovese, che illustra programma e intenti di un biennio all’insegna del rinnovato dialogo fra Villa Croce, la città e i suoi abitanti.
Il programma del 2018 si preannuncia fitto, per il Museo di Villa Croce, che esporrà, anche, a rotazione la propria collezione permanente. Ma per ora è stato svelato solo un terzo di quel che realmente si potrà realizzare.
Il 20 febbraio, Villa Croce inaugura Vita, morte, miracoli. L’arte della longevità a cura di Carlo Antonelli e Anna Daneri, una mostra della durata di oltre due mesi, con opere di Renata Boero, Elisa Montessori, Anna Oberto, Rodolfo Vitone, Lisetta Carmi, Franco Mazzucchelli e un happening di Corrado Levi, con incontri sul prolungamento dell’esistenza guidati da Stefano Gunstinchich, dell’Istituto italiano di tecnologia e sull’immortalità.
Fra gli altri eventi, a seguire inaugurerà Riviera! Meraviglie della Bella vita, sempre a cura di Antonelli e Daneri. Dal 21 giugno al 21 luglio, si terrà un mese di mostre, eventi, esplorazioni musicali all’interno e all’esterno del museo, in collaborazione con sedi museali e associazioni della rete rivierasca, da La Spezia a Nizza. Tra gli ospiti Vanessa Beecroft, che torna a Genova dopo la performance realizzata a Palazzo Ducale nel 2001.
Dal 9 maggio al 17 giugno verrà allestita la mostra personale di Claire Fontaine, Questi fantasmi. Apparizione e scomparse del valore, a cura di Anna Daneri, con opere concepite all’interno di Villa Croce e incentrate sul valore della frugalità. A settembre sarà la volta di TEU Festival, un progetto di arte contemporanea sviluppato da On con il Disfor, che prende il nome dall’unità di misura dei container. In occasione del Salone Nautico, dal 20 al 25 settembre, riflettori puntati sul Toilet Paper Party a cura di Maurizio Cattelan e Pier Paolo Ferrari. Mentre dal 6 ottobre al 2 dicembre, 1993 Locus solus. Fuori luogo 2018, a cura di Daneri e Vittorio Dapelo, si tratterà di un remake, a venticinque anni dal ciclo di mostre realizzate in otto tappe da Giulio Paolini nell’omonima galleria, ripensato per gli spazi del museo. Chiuderà, infine, il 2018, dal 13 dicembre a gennaio 2019, Real Artists don’t have teeths di Dora Garcia, prima personale in Italia dell’artista spagnola.
Ma perché è stata svelata solo una minima parte di quel che Carlo Antonelli e Anna Daneri hanno in mente? Non potevamo trattenerci dal domandarlo al neo-direttore.
L’INTERVISTA
Con la tua candidatura e infine la tua neo-elezione come si è trasformato, o si sta trasformando, il tuo amore per la città?
Ho sempre avuto un rapporto davvero bipolare con Genova. Sono nato a Novi Ligure, per mere ragioni accidentali, ma mia madre è basso-piemontese e mio padre è genovese. A tal proposito, il Basso Piemonte fu parte del genovesato ed è un territorio di cui terremo assolutamente conto nella rete di operatività di Villa Croce. Sono vissuto a Genova fino ai ventitré, ventiquattro anni d’età, pur viaggiando molto. È stato un periodo in cui la città mostrava un’ultima coda di un momento culturale molto importante, una stagione, quella degli Anni Settanta, davvero potente, ma soprattutto durissima. Essendo oltretutto culla di una delle fazioni fondamentali delle Brigate Rosse.
Com’era Genova in quel periodo, anche sul fronte culturale?
Genova era molto forte dal punto di vista della reazione politica a ciò che accadeva, con manifestazioni in strada, con la presenza operaia e con la presenza portuale dei camalli massicce. Lo spazio pubblico veniva percepito vivamente. Allora ‒ ma a essere precisi la spinta era iniziata dalla fine degli Anni Cinquanta ‒ ci fu un periodo di oggettiva, illuminata gestione della vita culturale della città che era esplosiva e che io ho assorbito in coda. Intorno al 1985 la città interruppe, infatti, quasi del tutto i rapporti con il contemporaneo, iniziando a isolarsi lentamente in una bolla strana, peraltro non sorprendente, e ‒ come suggeriva Henry James ‒ tornando verso un radicale rifiuto della modernità.
Il tuo esatto opposto…
Io infatti sono sempre stato alla ricerca dell’inedito e questo ha creato, già nel periodo di fine propulsione, una distanza forte, rispetto alla città. Mi sorprende pensare che il mio allontanamento sia avvenuto proprio a Milano, per un passaggio accidentale, anche se ritengo che Londra sia sempre stata la mia casa e Tokyo e New York le mie due città di riferimento. E non per snobismo, ma per l’estrema vitalità che emettevano. E ciò non di meno ‒ come ogni persona più o meno sensata, quale stranamente non sono, sebbene io mi sia comportato come tale ‒ i miei migliori amici sono sempre stati per larga parte genovesi “illuminati”. A Genova sono sempre tornato, mi sono sempre divertito, coltivando forme di affetto che potrei definire quasi sostitutive a quelle della famiglia di sangue. Rifrequentando la città negli ultimi mesi ho compreso però che la maggior parte dei genovesi ‒ essenzialmente ‒ era invece rimasta tale e quale, non era cambiata e per me è stata una scoperta molto impegnativa, come affrontare dieci anni di psicanalisi in due mesi.
Ilaria Bonacossa, che ti ha preceduto, ha lavorato secondo andature e ottiche che hanno attivato Villa Croce. Quale tipo di eredità raccogli?
L’eredità che raccolgo è soprattutto un’eredità di relazioni. Gli sponsor, che a questo punto del mio percorso mi rendo conto essere straordinari, sono merito suo e frutto di una ritrovata curiosità per l’arte contemporanea. Senza nulla togliere al lavoro di resistenza, quasi paragonabile al lavoro di certe sentinelle di alcuni racconti di Buzzati, portato avanti in particolare da alcune donne che hanno tenuto fede al contemporaneo: parlo di Caterina Gualco, di Francesca Pennone e Antonella Berruti di Pinksummer, per esempio. Il lavoro di Ilaria ha rappresentato una sorta di emolliente nei confronti delle rigidità muscolari di Genova. La sua è stata un’azione di dialogo e di cucitura fra le singole persone che si interessavano a tutto questo. Lei ha svolto un ruolo deciso nella diffusione della collezione e nell’affermazione di esistenza del museo, rispetto ai media, italiani e internazionali. Con un ritmo di programmazione anfetaminico, nonostante io sia abbastanza certo, dati alla mano, di poter definire Villa Croce il museo con il budget più ristretto d’Europa.
Quale elemento manca alla città di Genova e come, nel tempo, restituirglielo attraverso un nuovo faro culturale posto al centro della città?
Genova si è attestata su una sorta di sottile basso voltaggio. Noi stiamo cercando di scuotere, di elettrificare tutta questa tranquillità.
Come definiresti il collezionismo genovese? Come poterlo coinvolgere oppure farlo crescere, attraverso il museo?
Esiste una sorta di doppia faccia di Genova, che spiega anche la bassa quantità di gallerie di ricerca e invece la presenza di lavori importanti, oserei definirli impressionanti, nelle residenze private. Che i genovesi fossero dei grandi collezionisti negli Anni Sessanta e negli Anni Settanta è ben risaputo, perché hanno acquistato bene quel che Celant e Giannelli proponevano. Quando Ilaria inaugurò Andy Warhol sul comò, aprì semplicemente uno spiraglio sui grandi capolavori privati della città. Ci sono famiglie che espongono in casa lavori di Jim Dine e di Dan Flavin degni di entrare nelle collezioni del MoMA. Senza contare il contemporaneo, come le grandi installazioni di Saraceno. Anche nel collezionismo, la città si rivela affetta da doppia personalità: quel che si mostra all’esterno non svela mai nulla di quel che resta intimo.
Spiegaci meglio.
I collezionisti genovesi, ad esempio, sono forti viaggiatori. Una gran parte della borghesia locale in generale è segretamente cosmopolita e fa affari, costantemente, con l’estero. Si trovano, ad esempio: il commerciante di legnami che viaggia tra Senegal e Libano; il broker navale che ha relazioni con tutto il mondo; chi ha compagnie di rimorchiatori che stanno aprendo ad Hong Kong; il medico che risiede sei mesi a Genova e sei a Los Angeles etc. etc. E io ritengo che da questa doppia vita nasca dalla storia, dai commerci millenari. Da Genova come città che contiene, anche urbanisticamente, tutte le città del mondo. Una delle città invisibili di Calvino.
Nelle motivazioni di scelta della tua proposta, la giuria ha utilizzato termini come trasversalità, iniziative interdisciplinari, animazione diffusa e partecipata, molteplici campi del sapere, ricerca e sperimentazione. Potresti anticipare, anche se brevemente, alcuni punti dei tuoi prossimi due anni?
Le due parole fondamentali, scelte dal programma, sono state: ri-vascolarizzazione e orgoglio. Bisogna provare a vedere se in un corpo apparentemente tranquillo, esistano flussi vitali forti, che vanno ritrovati e connessi tra loro. L’orgoglio, invece è una parola complessa. Utilizzata al di là di ogni riferimento storico o interpretabile, questa componente deve coinvolgere Genova come città che deve nuovamente ritenersi generativa di futuro. Immaginare un museo di arte contemporanea a Genova, oggi, è quasi una contraddizione in termini: se viene rifiutata la modernità, diventa fantascientifico pensare alla contemporaneità. È questa che va ritrovata per prima, quindi. E va rappresentata, illuminata.
Da quali intenti ha preso le mosse il vostro programma?
Il nostro programma è partito da un punto chiave: che cosa può far sì che i genovesi ritornino in quel giardino che oggi è una specie di strano parco? Come spingerli a chiedersi “ma dentro quella villa bianca che cosa succede?”. Questo è il terreno di lavoro: si tratta di un museo che deve trasformarsi in un centro di esplorazioni, di emissione di segnali forti, sia da parte dell’arte contemporanea che della ricerca in genere. Io non sono un curatore tradizionale. La mia figura è quella di immaginare organismi vitali, molto vitali.
“Genova si è attestata su una sorta di sottile basso voltaggio. Noi stiamo cercando di scuotere, di elettrificare tutta questa tranquillità“.
Quale dialogo direzionale instaurerai con Anna Daneri, un’amica, ma soprattutto un’acuta, consapevole conoscitrice dell’arte contemporanea?
Noi ci conosciamo dai tempi dell’università. Lei frequentava Lettere e io Giurisprudenza, anche se a me, quella facoltà, non era mai interessata. Io volevo fare politica culturale attiva ed ero disinteressato radicalmente a quel che succedeva in Italia. Cercavo, anche, attraverso la musica, con la radio, di realizzare una programmazione estrema, per i tempi. Con Anna parliamo una lingua familiare, da decenni, pur avendo fatto percorsi differenti ma paralleli. Si è stilata la proposta delle mostre principali, io ho fatto la costruzione intorno e ho immaginato con lei un solo obbligo di progetto: che non ci potesse essere nulla che non parlasse della città. Tutti i lavori dovranno partire o da un elemento che riguarda la città attuale, o da un elemento da ricercare in relazione ai centri di ricerca scientifico-tecnologica, di eccellenza della città, oppure da una componente storica. Genova deve tornare a entusiasmare i genovesi. Le trasformazioni in corso ci spingono a pensare che ormai esistono pochissimi luoghi al mondo in cui il mondo stesso cessa di esistere. Anche una città così silenziosa ci deve saper raccontare le macro-urgenze del mondo: trasporti, migrazioni, clima, cambiamenti sociali, evoluzioni tecnologiche.
Quali strategie si potrebbero adottare per incrementare il budget di 70mila euro l’anno dedicati alla programmazione delle mostre future e per riformulare la funzionalità, le capacità attrattive del museo?
Abbiamo attivato un piano per aumentare la portata dei servizi a Villa Croce, ma per il momento non posso parlarne per questioni immaginabili di autorizzazioni e burocrazia necessari. Questa casa, questa costruzione presentata è ancora coperta di veli, noi abbiamo semplicemente raccontato il primo piano. Non abbiamo svelato nulla del suo parco attorno, dei seminterrati o degli altri ambienti. Per ora abbiamo mostrato quel che riusciamo a fare con quel budget che ci è stato affidato. Ma è solo un terzo di quello al quale stiamo lavorando. Ma occorrono ancora permessi, nuovi fondi e l’apporto ‒ anche fisico ‒ dei cittadini.
Molti artisti emergenti e giovanissimi, d’origine genovese, stanno svolgendo residenze all’estero. Ritieni che in un paio d’anni si possano tornare ad affezionare a una nuova scena della contemporaneità ligure?
So che ci sono giovani artisti di origini genovesi che studiano anche a Brera, ad esempio, ma perché il sistema accademico locale qui ha seguito la vita culturale della città. Credo che sarebbe interessante che da lì, da Milano, potessero dare un contributo al nostro percorso. Posso anche dire che abbiamo residenze per non italiani, residenze da attivare in un posto davvero straordinario, poco fuori Genova, per poter forse lavorare con un basso budget anche con grandi artisti.
Potresti esprimere un pensiero o formulare un augurio che accompagni il tuo prossimo biennio alla direzione di Villa Croce?
Vorrei che il museo fosse capace di generare una profonda felicità, anche se può sembrare un pensiero di un curato di provincia.
‒ Ginevra Bria
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