Lezioni di critica #2. Adriano Altamira e il detour del generale Druot
Una densa conversazione tra Roberto Ago e Adriano Altamira, milanese classe 1947, che fin dai primi Anni Settanta ha saputo distinguersi come una tra le figure più singolari del panorama artistico e culturale italiano. Affermandosi simultaneamente come artista, storico e critico dell’arte contemporanea. E ora in mostra alla Fondazione Marconi di Milano.
Roberto Ago: Caro Adriano, in un Paese sovente distratto, smemorato e poco riconoscente con i suoi artisti meno facili e allineati, sei pur stato un riferimento costante per tutti quegli intenditori che stanno attenti, non dimenticano e ti sono grati per quanto realizzato nel corso di un’attività pluridecennale, che altrove avrebbe conosciuto ben altre occasioni di visibilità. La tua ultima personale in corso da Marconi a Milano (Conceptual Rigoletta), dove non esponevi da qualche anno, è stata per me motivo di fibrillazione. Ci lega una comune passione per il collezionismo di iconografie e la loro “messa in opera”, oltre che l’alternarsi di un momento creativo con uno più teorico e critico. È per me un dovere, prima che un piacere, poter scambiare quattro chiacchiere con te.
Vorrei prendere le mosse da una prima evidenza: rispetto all’utilizzo della fotografia, da sempre prevalente nella tua ricerca (penso soprattutto ad Area di coincidenza), hai optato per una serie di fotografie e grafiche ri-disegnate. Vuoi chiarire i motivi di questa nuova reenactment artigianale?
Adriano Altamira: A me è sempre piaciuto disegnare, e quando ho potuto ho sempre disegnato – per esempio nel mio lavoro sui sogni (Ice dreams).
È vero che il mio impegno nel campo della fotografia ha spesso messo in secondo piano questa mia capacità. Nel caso di Conceptual Rigoletta il lavoro è nato veramente in uno stato quasi ipnotico. Mi sono reso conto poi di aver tentato, anni fa, di fare un’opera simile attraverso foto trovate qua e là. In quel caso la frizione tra i vari linguaggi fotografici “prelevati” aveva un effetto sgradevole che rendeva il risultato incerto e dilettantesco. Ridisegnando il tutto ottenevo invece quel grado di fusione tra le varie foto prese a modello (alcune mie) e anche una certa perentorietà dell’immagine. Così ci ho lavorato a fondo ottenendo (mi hanno detto) risultati a volte virtuosistici – spero che sia vero.
R. A.: Hai accennato a uno stato ipnotico, tipicamente innescato da una gestualità ripetitiva. Immagino sia stato tutt’uno con l’associazione di immagini e idee di sapore onirico che compongono questa tua ultima fatica, curiosamente scandita da una moltitudine di tavolini per due, sorta di paradossale “ristorante privato”. Si tratta forse di reiterate cenette intime con te stesso, alle quali assiste uno spettatore nei panni del cameriere voyeur? Cosa è dato sbirciare?
A. A.: La triangolazione che tu ipotizzi (i due “io” che si fronteggiano, e l’io voyeur che li guarda) è forse eccessiva, ma è un fatto che al tempo del lavoro sui sogni – soprattutto fra l’82 e l’84 – avevo scritto che quello che si stupisce non è l’uomo che sogna, ma l’uomo sveglio che si guarda sognare. Anche in Conceptual Rigoletta sono venute prima le immagini (create o trovate) e solo in seguito la riflessione che ha portato alla loro realizzazione. Forse sarebbe più corretto dire che io vedo – o intravedo – ma non sbircio.
R. A.: Intendevo che a sbirciare è lo spettatore, non tu che pure sei il primo spettatore di te stesso. Interessante la tua puntualizzazione ego-riferita: se l’alterità reca con sé l’idea di intrusione, illecito è estenderla alla propria persona. Nondimeno, hai esposto un ostensorio di quella che appare come una intimità onirica. Evocando la “macchina per registrare sogni” in Fino alla fine del mondo di Wim Wenders, l’analogia richiede una distinzione: è Conceptual Rigoletta una pseudo-registrazione onirica solo apparentemente prossima a Ice dreams, e cosa fa “intra-vedere”?
A. A.: Ovviamente c’è una parentela fra Ice dreams e Conceptual Rigoletta, che è un lavoro sulle associazioni mentali. Il lavoro sui sogni era però scisso in due momenti distinti: la registrazione dei sogni (disegni e a volte descrizioni); e realizzazione in 3D – di fatto delle sculture, spesso di complessa realizzazione. Qui invece la comparsa dell’immagine e il disegno sono quasi un tutt’uno – direi che si completano a vicenda: anche se spesso, volutamente, sembrano accennare alla realtà più che rappresentarla. È una realtà che passa attraverso il ricordo, il pensiero, la sensazione anche. D’altro canto, come mostra bene la scelta degli eserghi, qui mi pongo delle domande sulla natura dell’immagine (penso a Meister Eckhart in particolare) di taglio più concettuale rispetto al lavoro sui sogni, volutamente irrazionale dopo più di dieci anni di Area di coincidenza, il mio lavoro decisamente più teorico.
R. A.: Si può notare in effetti come il tuo compendio di icone disegnate sembri ricalcare non solo la freudiana associazione di idee, ma addirittura la retorica onirica, senza mai scivolare nel surreale. Rispetto al rigore analitico di Area di coincidenza e alla successiva compensazione intimistica di Ice dream, la tua ricerca attuale sembra concentrarsi sui meccanismi dell’analogia, dello spostamento e della condensazione, secondo un modus a cavallo tra Freud e Warburg. Cosa puoi dirmi in merito alla sovrapposizione di psicoanalisi e iconologia che Conceptual Rigoletta sa evocare?
A. A.: Ho notato che tutti quelli che seguono il mio lavoro hanno riscontrato una somiglianza fra Conceptual Rigoletta e Area di coincidenza, mentre quasi nessuno (a parte te) ha visto una relazione col lavoro sui sogni. Sarà forse per questa mia tendenza ad accostare immagini apparentemente disparate attendendo, un po’ maieuticamente, che facciano il loro effetto nella mente di chi guarda, più che suggerirglielo io stesso. Se Area di coincidenza era un lavoro decisamente warburghiano (nota che quando l’ho iniziato avevo forse 22 anni e di Warburg sapevo poco o niente) qui in effetti le icone giocano più liberamente fra loro, in senso non so se freudiano, ma certamente psicoanalitico: un aspetto che nel lavoro sui sogni era invece poco – se non per niente – sottolineato. Tuttavia è anche vero che in sequenze come quella di Mrs Martins, in cui il vero personaggio è Duchamp, si cerca anche di fare un discorso sull’arte, sulla irrealizzabilità del desiderio, sull’assenza.
R. A.: Credo sia l’associazione solo apparentemente libera di icone relative alla contemporaneità a restituire un sapore prossimo alla retorica onirica: esse vedono all’opera meccanismi semiotici e immaginari sovrapponibili. Indispensabili alla piena intelligibilità di Conceptual Rigoletta, sono i dodici testi in catalogo, che con altrettanta ispirazione hai composto. Da uno di essi, Pussy Galore (mitica), ho estrapolato il lemma “la contemporaneità indistricabile dei vari livelli di racconto”. Mi sembra che questa dissimulata sentenza apofantica (“la contemporaneità è un intrico di differenti livelli di lettura”) possa sintetizzare il senso generale di Conceptual Rigoletta, questo vortex narratologico il cui vertex ideale è rappresentato dal bendato generale Druot, un Altamira-Tiresia che va rovesciando il mondo in interiorità e viceversa. Vorrei tentare un’ermeneutica del tuo (o suo?) detour, naturalmente parziale e prospettica. Siccome il senso dei vari episodi lo hai già illustrato tu nel catalogo, mi indirizzerò al reperimento degli ingredienti trasversali a tutte le portate. “Io” narrante a parte, essi sono: personaggi storici e culturali “rettificati” in tuoi alter ego (emblematicamente introdotti da Duchamp); ombre, vuoti e veti; piedi e scarpe femminili; animali, domestici e non; sguardi di donne-animali e di voyeur dotati di raggi X; donne del (e di) mondo; marchingegni tecnologici in quantità; libri, film e media in genere; architetture, opere d’arte e iconografie. Ti risuona un tale elenco in bilico tra il palinsesto onirico e quello della modernità?
A. A.: Ti rispondo, in disordine, partendo dal mare di suggestioni e di domande che mi invii.
R. A.: Ne hai facoltà: tale l’opera, così l’esegesi.
A. A.: Giusto è quanto dici sui personaggi storici “rettificati”: in particolare il generale Druot, effettivamente un alter ego. Non ti sarà sfuggito il fatto che con l’aria di niente ricordo la circostanza di una sorta di performance fatta in Svezia, durante la quale, bendato, ritto su una scogliera a picco sul mare disegnavo a memoria, e al buio, il paesaggio circostante.
Altri due personaggi, Duchamp all’inizio, Isidore Ducasse (Lautréamont) alla fine, portano con loro una sorta di indicazione di tendenza – nonostante il fatto che tu sottolinei opportunamente, che io cerchi sempre di tenermi a distanza dal Surrealismo in senso stretto. Infatti mi è sempre interessato di più il Dadaismo, nella chiave Duchamp/Picabia, piuttosto che Tristan Tzara, nonostante si debba a quest’ultimo la scoperta, o il lancio, di Ducasse.
R. A.: Anche l’universo femminile è ben presente, nel tuo lavoro…
A. A.: Vorrei sfatare la leggenda di un Altamira feticista del piede, anche se non sarebbe così grave. Teoricamente dovrebbero bastare le due citazioni dai manoscritti del Mar Morto e dagli appunti di Margherite Yourcenar per fare chiarezza, ma al pubblico piace rimestare nel torbido, e delle volte anche a me. In realtà io adopero il piede in funzione anti-psicologica. In effetti un tempo i maestri, come per esempio Rubens o Reynolds, nei ritratti, dipingevano volto e mani (le parti “espressive”), lasciando poi al maestro di panneggi i vestiti e al maestro di paesaggi gli sfondi. Mi diverte dedicare al piede, parte non nobile del corpo, quell’attenzione che solitamente si riserva al volto. Oggi poi che tutto diventa “segno”, in senso filosofico, le scarpine con gli aculei di metallo, piuttosto che un elegante motivo pied-de-poule, hanno una funzione “espressiva” tutt’altro che trascurabile.
R. A.: Dimentichi i piedi di ninfa di warburghiana memoria, dunque così feticista non sei.
A. A.: Quanto agli animali, di cui sono da tempi non sospetti un grande estimatore, vorrei notare come essi, ancor oggi, costituiscono un ponte di collegamento preferenziale col mondo mitologico, che si collega naturalmente al mondo di icone che vado creando.
Venendo ai personaggi femminili, sì, forse costituiscono una sorta di galleria di amori sognati più che vissuti. Così come alcune architetture – penso a San Lorenzo e all’arco alla fine della piazza – rappresentano gli spazi in cui mi muovo abitualmente.
La citazione di opere d’arte come il Filippino Lippi e il Piero Di Cosimo è per me abituale, anche se qui vengono metaforizzate in senso personale.
Per quanto riguarda i macchinari, infine, in genere funzionano un po’ come dei readymades, a metà strada fra oggetti a funzionamento simbolico e metafore congelate, i fotogrammi dei film hanno un ruolo ben più attivo. Il film di Pabst ad esempio, muto ma privo di didascalie, è un precedente illustre di Conceptual Rigoletta, anch’esso privo di didascalie esplicative. Mi piace pensare che le storie raccontate alla fine del libro (non è un semplice catalogo) – che in effetti era il vero scopo della mostra, il suo suggello – siano le “mie” storie, che chiunque altro potrebbe raccontare in altro modo.
R. A.: Purtroppo il web non ci consente di proseguire oltre. Nel salutarti invitando il pubblico a non perdere assolutamente la tua mostra da Marconi, alla quale dedicare un po’ più di tempo del solito, magari sfogliando le agili chiavi d’accesso del “libro”, vorrei lasciarti con un’ulteriore suggestione: godi anche tu nel pensare ai cartigli dei dipinti che evolvono come le specie naturali, tanto da scoprirsi bolle dei fumetti?
A. A.: Anche i cartigli lasciati in bianco prima da Filippino Lippi, poi da me, potrebbero originare vari “fumetti”. Il fatto di non precisare sempre “cosa” o perché, è lo spazio di libertà lasciato all’arte. Se uno dovesse dire al suo lettore “cosa” immaginare, l’arte avrebbe finito di essere uno spazio libero. Soprattutto in questa civiltà che si picca di prevedere i nostri desideri, di indirizzare il nostro gusto, di pianificare il nostro futuro.
‒ Roberto Ago
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