Pittura lingua viva. Parola ad Angelo Mosca
Viva, morta o X? Secondo appuntamento con la nuova rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura "espansa" alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l'illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Angelo Mosca, nato a Chieti nel 1961, vive tra Ortona, Castel di Ieri (L’Aquila) e Milano. Inizia a esporre negli Anni Novanta e si laurea in comunicazione discutendo una tesi in sociologia. Ha partecipato a mostre personali e collettive in gallerie e spazi espositivi in Italia e all’estero, tra cui Galleria Six, Milano; Spazio Yellow, Varese; Galleria Lorenzo Vatalaro, Milano; Spazio Cabinet, Milano; MARS, Milano; Wendy Cooper Gallery, Chicago; Federico Luger Gallery, Milano; Modern Culture, New York; Annarumma 404, Napoli; Platform Gallery, Londra; Jan Wagner Gallery, Berlino; Galleria Guido Carbone, Torino. Nel 2009 fonda a Ortona lo spazio non profit Galleria/Galleria. Nel 2013 avvia l’esperienza L’artista nel sistema e il suo tempo a Castel di Ieri, dove dal 2015 dirige Spazio/Studio. Si è appena conclusa, al Muselaboratorio Ex Manifattura Tabacchi di Città Sant’Angelo (Pescara), la personale La mia Chieti (ovvero delle origini), a cura di Daniela Pietranico.
Cosa significa esprimersi attraverso la pittura? Quale lo stato della pittura italiana oggi e perché per molto tempo, secondo te, è stata penalizzata come mezzo espressivo, diversamente da quanto accade nel panorama internazionale?
Il clima rispetto alla pittura è cambiato, basti pensare alla recente mostra curata da Germano Celant per la Fondazione Prada o a quella di Luca Massimo Barbero a Firenze. Io non ho mai disgiunto arte contemporanea e pittura, anche se, per esempio, dieci anni fa la pittura, in Italia, sembrava una “cosa” strana, una “anomalia”. Oggi probabilmente è cambiato il modo di guardarla e di guardare a determinati artisti. Mi piacerebbe chiedere a certi curatori cosa sia cambiato. Per me non è cambiato nulla.
In tempi non sospetti sei stato tra i primi a studiare ed esporre l’opera di pittori italiani, come Carlo Dalla Zorza, Carlo Levi, Roberto Melli, Fausto Pirandello, Pio Semeghini, vittime di quella che definisci una “rimozione”… Penso all’importante lavoro che hai fatto con la mostra a Roma e con il libro Pittura italiana e altre storie minori, da te curati insieme a Michele Tocca nel 2015.
Il titolo era ovviamente ironico. Definire quegli artisti “minori” voleva essere una provocazione perché, nonostante non siano ricordati da molti, rimangono artisti e intellettuali importanti. Abbiamo sentito l’esigenza di parlare di loro e di presentarli nuovamente, dal momento che chi si interessa di pittura non può prescindere dalla loro storia, non può non fare i conti con l’esperienza chiarista o con quella della Scuola Romana, capisaldi della nostra cultura. In mostra, alcuni di questi Maestri sembravano una scoperta recente ma appartenevano già alla storia dell’arte. Solo, talvolta, manca la sensibilità per guardarli e capirli.
Nella mostra hai accostato opere di questi Maestri a quelle di alcuni pittori contemporanei. In altre occasioni le tue opere sono state esposte insieme a opere antiche. Come vivi tali attraversamenti diacronici?
Non ho mai avvertito una distanza. Quando nel 2014 cercavo un luogo dove realizzare una mostra, ho trovato quasi per caso lo spazio di Lorenzo Vatalaro, antiquario milanese specializzato nel Seicento. Ho creato un dialogo fra alcune delle opere da lui raccolte e le mie. Questo è stato poi lo stimolo per Lorenzo a iniziare una serie di mostre che sono “diventate” contemporanee. Se Vatalaro ha presentato opere contemporanee nella sua galleria, nel 2017 una galleria di Milano che si occupa di contemporaneo, la Galleria Six, mi ha invitato a esporre le mie opere insieme a una selezione di pastelli di Fausto Pirandello, raccogliendo e sviluppando così le riflessioni alla base di Pittura italiana e altre storie minori. Oggi molte gallerie storiche si occupano di contemporaneo, mentre altre contemporanee si occupano di antico e moderno. Anche questa è forse un’anomalia. E alla fine sembra che non ci siano più spazi dedicati a presentare le ricerche dei più giovani, se non in determinati contesti e situazioni, magari costruiti dagli artisti, off.
Dipingi paesaggi e interni liquidi, spesso popolati da fantasmatiche presenze, evanescenti, in cui alla morbidezza delle tinte si oppongono segni decisi. La luce, le trasparenze agiscono quasi come una sorta di filtro dato dal tempo, dalla memoria e dal ricordo, una patina. Come sono stati accolti i tuoi primi quadri?
Nella personale del 2017, Genesi di una pittura, da Yellow Space di Varese, ho esposto una serie di opere realizzate tra il 1994 e il 1999. La mia era una pittura trasparente, diafana. Ho iniziato dipingendo così: facendo una pittura non consona ai canoni allora vigenti, orientati verso una pittura più materica, coloristica… E ai tempi, infatti, questi quadri non piacquero praticamente a nessuno. C’era poca pittura e pochi la seguivano. A distanza di più di 25 anni, le cose sono cambiate e posso tranquillamente dire che questi lavori, adesso, sono apprezzati. Uno però non cambia il proprio lavoro. Porta avanti la ricerca con costanza se ha messo a fuoco che quella è la propria modalità d’espressione. Certo, non è facile. Il sistema e il mercato non sono d’aiuto. Tant’è che dopo la mia prima deludente esperienza di mostra negli Anni Novanta ho lasciato l’Italia per Londra.
Lì era più facile?
Londra era un luogo estraneo. In quegli anni ho stretto amicizia con artisti inglesi che riconoscevano il valore della pittura. C’era più apertura. C’era un dibattito culturale, la possibilità di parlare. C’erano spazi alternativi. Certo, le gallerie continuavano a privilegiare un tipo di pittura più decorativo…
Il rapporto con il mercato, appunto… Per molto tempo non hai avuto una galleria fissa. E la tua posizione è sempre stata molto rigorosa e critica nei confronti di determinate dinamiche del sistema dell’arte…
Il mercato in Italia non esiste. Paradossalmente quegli artisti che oggi hanno mercato ‒penso, per esempio, al gruppo dell’Arte Povera ‒ ai tempi andavano controcorrente, potevano sperimentare. Oggi manca il coraggio. Le gallerie, le fiere, il sistema, in generale, non ti seguono se non sei allineato a determinate istanze provenienti dall’Europa o dagli Stati Uniti. Magari passano 20, 30, 40 anni e poi ti seguono… Perché, come si diceva prima, cambia il modo di guardare le cose, cambia la prospettiva, la sensibilità. Il mio consiglio, e quello che io in prima persona cerco di fare, è portare avanti una ricerca pura, non omologata. E aspettare… Una ricerca solitaria, avulsa dal sistema, un po’ quello che per anni hanno fatto anche tanti altri… Per me la pittura è l’occasione per portare avanti un discorso autonomo.
Nel tuo percorso convivono strettamente una dimensione locale e una globale, entrambe per te importanti: da Ortona a Milano a Londra fino all’esperienza di Castel di Ieri, affascinante borgo abruzzese, che ha dato i natali ai genitori di Elsa Morante e che, grazie a te e a un sindaco lungimirante, ha scoperto il contemporaneo… Raccontaci questo tuo muoverti e dividerti fra luoghi così lontani e dai ritmi così diversi.
Sono originario di Chieti, ho studiato a Milano e ho vissuto tra Milano e Londra. Dopo vent’anni diviso tra queste città, ho cambiato mondo. Fuori e dentro di me. Mi sono concentrato su una dimensione più impegnata. Nel 2015 ho realizzato piccole tele, frammenti di tela che riguardavano il mio luogo di origine e i primi ricordi della mia vita: la mia casa natale, la piazzetta dove giocavo, la fontanella, il posto dove andavo a comprare la legna con mio nonno. Sono andato a indagare e da lì ho capito cose più profonde. E mi sono trovato a riflettere su cosa stessi facendo. Sono diventato più consapevole. Mi sono reso conto che qualcosa stava cambiando. E quello che stava cambiando… ero io! Dopo quelle tele ho maturato l’idea di tornare in Italia. Con una consapevolezza: il nostro è un Paese pieno di arte e di storia. Bisogna prendersene cura, occuparsene. E, in primis, lo devono fare gli artisti. Io me ne voglio occupare. Diventa un atto politico. E un atto pratico. Bisogna coinvolgere le persone, la comunità che ci circonda.
Questo senso di comunità è molto forte in te, si tratti di quella della tua terra d’origine, l’Abruzzo, che di quella dei pittori a te vicini. Ti sei sempre molto prodigato per la promozione e valorizzazione di giovani o meno giovani colleghi attraverso l’organizzazione di mostre e workshop, nel tuo studio a Ortona con l’attività di Galleria/Galleria. E da lì Castel di Ieri con Spazio/Studio.
A Ortona, con Galleria/Galleria, ho presentato una decina di mostre, una-due l’anno. Spazio/Studio si trova al centro del borgo di Castel di Ieri, è aperto a tutti. Vengono le persone ‒ è una comunità piccola, 200 abitanti ‒, vogliono parlare, ascoltare, cercano uno scambio, un confronto. Come artista cerco di offrire il mio punto di vista su questioni etiche ed estetiche, ma spesso sono interpellato anche su questioni della vita di tutti i giorni!
È un modo per far tornare l’artista al centro del dibattito.
Certo. Per molto tempo l’artista è stato messo ai margini del dibattito. Deve tornare al centro. Quello che sto facendo ruota intorno al lavoro e alla figura dell’artista che deve recuperare una dimensione politica, deve occuparsi della polis, della città. A Castel di Ieri si crea una comunità, che si allarga, coinvolgo altri artisti… Questo mi ha spinto a spostarmi da Londra a un luogo “marginale”: il recupero di una dimensione dove esiste il confronto, dove è davvero possibile portare il proprio contributo. Questo luogo, così come tante altre centinaia, migliaia di borghi, paesi e città italiani, ha una cultura molto profonda. In queste terre per esempio abitavano gli Italici da cui deriva il nome Italia… Certo, i più giovani che ancora vivono nel borgo mi hanno preso per matto all’idea che avessi lasciato Londra per Castel di Ieri! Ed effettivamente anche io da ragazzo mi sono spostato dall’Abruzzo a Milano. In questi ultimi anni ho maturato però l’idea che non si debba necessariamente vivere solo nei grandi centri.
E così arriviamo alla personale La mia Chieti (ovvero delle origini).
La mostra La mia Chieti è nata dal momento di passaggio che ho vissuto, da questa nuova consapevolezza. A Città Sant’Angelo espongo proprio quelle opere londinesi del 2015. Per raccontare, e recuperare, le mie origini. Chieti si fa così metafora di tutte le città italiane e della necessità di recuperare le straordinarie ricchezze che ci circondano.
‒ Damiano Gulli
Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
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