Sentire le cose. Intervista a Matt Mullican
In mostra al Pirelli HangarBicocca di Milano, l’artista statunitense racconta la genesi di una esposizione poderosa. Ma anche le logiche sottese al “sentire le cose”.
“Questa mostra rappresenta un sogno per me”, afferma Matt Mullican (Santa Monica, 1951) di fronte al lavoro di mesi. “Qualcuno mi ha chiesto come ci si sente a organizzare una nuova mostra così largamente ricognitiva. Ho tenuto molte mostre in Europa, ma questo non è il punto; io di solito rispondo che si tratta di una mostra che ha creato un museo. Questo stesso percorso dove mai avrei potuto allestirlo? Ho inserito tutto, all’interno, e ogni singola area ha richiesto un trattamento decisivo, con muri che la circondassero. Se si cammina attorno al perimetro si ha la panoramica perfetta per “The Feelings of Things”. Ogni mostra che ho allestito è sempre stata considerabile come un survey show, magari una un po’ più grande di un’altra, ma questa è la più estesa in assoluto e va al di là di qualsiasi cammino di cui io abbia mai avuto esperienza”.
Con poche battute Mullican introduce una mostra monumentale, incentrata su “i cinque mondi”. Ogni mondo corrisponde a un diverso livello di percezione ed è rappresentato da altrettanti colori: verde per gli elementi fisici e materici; blu per la vita quotidiana (il “mondo senza cornice”); giallo per gli oggetti che acquistano valore, come l’arte (il “mondo nella cornice”); bianco e nero per linguaggio e simboli; rosso per soggettività e idee. All’interno sono stati dispiegati oltre 6mila oggetti.
Per Pirelli HangarBicocca l’artista ha concepito un’imponente struttura suddivisa in cinque colori, un reticolato cosmogonico che occupa quasi completamente i 5mila metri quadrati dello spazio espositivo delle Navate.
A tuo modo di vedere, come può essere ravvisata un’idea di monumentalità nella mostra?
Il primo monumento è lo spazio, è imponente, basta domandarsi: quanti metri d’altezza ci sono? Quanto risulta la superficie totale? Non si tratta di uno spazio tipico, affatto, e l’esterno qui sembra essere portato in un interno, come fosse una sorta di strada protetta. È come se venisse riprodotta la scala delle strade nelle quali normalmente si vive con i negozi e tutto il resto: al visitatore si chiede di pensare alle proporzioni delle cose in una maniera differente.
E ovviamente, quando si attraversa uno spazio come questo, a piedi, si avverte una sorta di impeto improvviso, lungo tutto il corpo, quella è la percezione delle grandi dimensioni. Io credo sia questa sensazione a connettere il titolo della mostra, The Feelings of Things, con la vastità del vuoto. Rappresenta un atto monumentale, per me come per qualsiasi altra persona, cominciare con l’assorbimento, interiore, di uno spazio così gigantesco, ma allo stesso tempo mi permette di catturare il contesto del mio lavoro. Non ho solo composto una mostra museale, ma mi sento di aver costruito un museo.
Architettonicamente?
Sono stato in grado di innalzare muri, anche se bassi e simbolici, ma ho eretto pareti per conferire una collocazione esatta al mio lavoro. Inoltre lo spazio mi ha dato la possibilità di mostrare moltissimi elementi, moltissime componenti, lavori individuali. È stato difficile sistematizzarli, ma possono essere tranquillamente contati nel numero di 6mila. Quando una persona guarda una mostra come questa non intuisce il fatto che ci siano 6mila pezzi. Quando si esce dalla mostra, è impossibile ricordarli tutti quanti o affidare a tutto una quantità. Forse ci si ricorda di alcuni dettagli, di alcune viste. Ma il cervello umano non processa informazioni attraverso i numeri, lo fa attraverso l’esperienza e, come cita il titolo della mostra, i sentimenti delle cose.
Di quali passi si compone il tuo esercizio di apprendimento giornaliero?
La mia giornata, come al solito, a Berlino, dove vivo, comincia quando inizio ad accendere la mia vita, accendendo il cellulare. Poi, dopo aver attraversato la cucina, aver acceso la radio e aver ascoltato il radiogiornale della BBC, faccio colazione e mi dirigo sulla mia comoda poltrona nella biblioteca di casa. Di fianco c’è sempre un piccolo tavolino, con un paio di libri, mi siedo lì e ascolto MPR, che è una stazione americana. La stazione radio in cucina è inglese, mentre in biblioteca è americana. Accompagnato dalla voce di tutto quel che succede lì, poi scelgo alcuni libri di artisti, fra i miei preferiti come, fra gli altri, Acconci, Beuys, Baldessari e Richter. Tengo anche un quaderno di appunti, sul quale ogni tanto segno note e trattengo idee, di solito avviene questo per circa due ore. Poi alla fine mi vesto, esco di casa e mi dirigo in bicicletta verso il mio studio, in circa mezz’ora. Poi comincio a lavorare, formalmente, anche se il mio lavoro è avvenuto prima, mentre ero sdraiato sulla mia poltrona, la mia easy chair, dove posso sfogliare dai volumi su Bosch a volumi sull’architettura a riviste come Domus, di fronte alla vetrata, tra un caffè e una baguette. È davvero adorabile imparare così.
Inconsueto come apprendimento…
Un altro modo secondo il quale aumento la mia conoscenza è attraverso le persone, mentre insegno. Ogni giovedì insegno, da oltre dieci anni, in Accademia ad Amburgo, proponendo un’associazione libera di conferenze, di lezioni frontali, ma anche di incontri nei bar, con gli amici, con i miei assistenti che sono le persone con le quali, solitamente, parlo di più e acquisisco più informazioni. In generale il mio assistente Albrecht e il mio dealer sono le persone più care che frequento, assieme a mia moglie, che vive a New York, anche se cerchiamo di essere vicini gli uni agli altri il più possibile, e ad artisti come Peter Kogler e Jon Kessler. Si tratta comunque sempre di piccoli gruppi.
Verso quali limiti la conoscenza, oggi, dovrebbe essere spinta?
Io non so quasi nulla dei limiti. Come artista so solo che devo spingere, oltre qualsiasi forma, il mio lavoro, il più possibile, ponendolo di fronte a sfide costanti. Come scrisse, tempo fa, Baldessari: I Will not Make any Boring Art (1971). Per creare arte dalla quale si impara, o si comprende, bisogna inserire qualche processo, qualche metodologia che sia in opposizione rispetto ai tuoi gradi di conoscenza e rispetto a quello che fai, altrimenti si diventa annoiati da quel che si produce molto facilmente. L’arte può diventare un dono davvero portentoso quando uno capisce di trovarcisi in mezzo e quale direzione deve prendere. Solo così, è divertente dirlo, si apprende dal non conoscere.
Potresti esprimere un augurio che accompagni la mostra?
The Feelings of Things rispecchia davvero come supponiamo il mondo sia, perché lo sentiamo molto di più di quanto non lo riteniamo reale e questo diventa sempre più ovvio quando ascoltiamo o veniamo a conoscere le notizie e reagiamo senza perseguire una logica. Ecco come noi siamo, a un livello davvero basico. I sentimenti delle cose hanno a che fare direttamente con il pensiero e quel che proviamo al vedere le cose, gli oggetti, gli elementi della quotidianità. Spesso noi pensiamo alle cose come immagini nella nostra mente, oppure come concetti, oppure come parole e possono rimanere nient’altro che questi. Ma se io dovessi pensare strategicamente e ordinatamente a tutti loro, ogni momento, probabilmente mi sentirei paralizzato, per questo credo che noi pensiamo attraverso sensazioni, trasformando un solo flusso di informazioni in processi, in maniera incredibilmente veloce. Ma lo si fa attraverso una molteplicità di piani, che visualizzano le nostre visioni e dove queste ci stanno guidando. Questo ha a che vedere con come noi ci relazioniamo con le suggestioni, con le sollecitazioni che ci derivano dal mondo, determinando una più ampia gamma di sentimenti che noi, come esseri umani, ancora non sappiamo classificare.
‒ Ginevra Bria
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