Pittura lingua viva. Parola a Michele Tocca
Viva, morta o X? Quarto appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura "espansa" alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l'illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Michele Tocca (Subiaco, Roma, 1983) studia pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera e presso il Central Saint Martins di Londra, completando un MA al Royal College of Art, Painting Department, sempre nella metropoli inglese. Tra le principali mostre personali e collettive: P1: Filling the Station, She will, Oslo (2018); Reazione a catena, 1/9 unosunove, Roma (2018); Stupido come un pittore, Villa Vertua Masolo, Nova Milanese (2018); Belvedere, Caffè Internazionale, Palermo (2018); Locus Amoenus, Museo Tornielli, Ameno (2017); Koffer Kunst, Far Off, Colonia (2017); Declinazioni della Pittura, Francesco Pantaleone Arte Contemporanea, Palermo (2015); Desiderio, L’Arca, Teramo (2015); Pittura Italiana e altre storie minori, Villa Torlonia, Roma (2015); Allegoria, Fuoricampo, Bruxelles e Siena (2014); Benjamin Senior_Michele Tocca: The Fate of Forms, FLAG Foundation, presentata dalla James Fuentes Gallery, New York (2014); Studiolo Project, Milano (2014; 2011); Italian Youth, Museo Pinacoteca S. Francesco, Repubblica di San Marino (2014); Moments Around Us, Idea Store Whitechapel, Londra (2013); Landina 1, CARS Omegna (2013); La Pittura, Isola, Galleria Bianca, Palermo (2012); Appunti di pittura, MARCA, Museo delle Arti di Catanzaro (2011); Moscow Biennale, Era Foundation, Mosca (2010); Impresa Pittura, Centro Internazionale per l’Arte Contemporanea, Genazzano Roma (2010); Prague Biennale 4 (2009).
Come ti sei avvicinato alla pittura?
Da bambino, guardando le pitture rupestri del monastero benedettino di Subiaco, dove sono nato. Lì l’avvicinamento è diretto, vitale, non musealizzato. Mi colpivano queste tracce presenti di cose che percepivo come passate.
Nelle tue opere c’è una forte attenzione a storia e tradizione di questa disciplina, che si ritrova anche nel tuo lavoro teorico, nei tuoi scritti e nel progetto portato avanti con Angelo Mosca sulle “storie minori” della pittura italiana. Quali i modelli cui guardi e come sono assorbiti e metabolizzati nei tuoi quadri?
Con i dipinti facciamo necessariamente parlare o azzittiamo altri dipinti di ieri e di oggi. Non tanto in senso formale, che è un processo più inconscio o che nasce dalla voglia di confrontarsi, aggiungere o togliere qualcosa a quello che si osserva. Quanto in senso etico e, direi, critico. In una cultura visiva sconfinata come la nostra, ripensare la storia è l’unica via per capire come un dipinto si distingue da altri segmenti del visibile e può dire qualcosa da oggetto pittorico. Anche per questo è nata la mostra a cui ti riferisci.
La pittura italiana tra le due guerre sta vivendo oggi un momento di rinnovata attenzione. Come leggi questo fenomeno tu che da sempre hai guardato a figure come Semeghini, Pirandello, Levi, Melli…?
È vero che oggi, rispetto a pochi anni fa, quel periodo è di moda. Sono cicli legati a necessità di gusto e di mercato. Bisognerà capirne gli effetti sull’arte. Ridare voce a sostrati culturali è compito degli artisti.
Gli agenti atmosferici, lo stratificarsi del tempo e dei tempi hanno un ruolo centrale nelle tue opere. Mi verrebbe da parlare di impressionismo metafisico perché spesso parti dalla pittura dal vero, o all’aperto, ma trasformi particolari e dettagli del quotidiano, quasi banali, rendendoli altro da sé… Ti ritrovi in questa lettura?
Affronto le differenti dinamiche della pittura dal vivo – le possibilità, i cliché, i rischi e le frustrazioni. Il tempo ha un ruolo primario. Guardo tanto a soggetti di oggi quanto fuori dal tempo, fenomeni durevoli, effimeri, ciclici. Per alcune serie torno a lavorare in luoghi dipinti da artisti del passato – recentemente a Palermo e Bagheria sulle tracce di un belvedere di Francesco Lojacono. Tutto è rivolto al presente. Le decisioni e le scelte sono dettate dalle cose, dall’osservazione prolungata o momentanea, da percezioni e ruminazioni, che mi viene naturale raccontare come esperienze fisiche, come accadimenti. Più ti avvicini alle cose, più loro ti suggeriscono come vogliono essere rappresentate e più, in un certo qual modo, te ne allontani e finisci a raccontare la storia del farsi del quadro, che mi piace lasci delle tracce di come è stato costruito. Anche per questo dipingo dal vivo e succedono diverse cose dentro i singoli lavori.
E la figurazione quasi sfocia nell’astrazione…
Ricerco una partecipazione tra il soggetto e la pittura o viceversa. Alex Katz dice che è la grammatica della pittura a essere astratta e dunque, lasciando che i miei quadri raccontino l’accadere di qualcosa insieme all’accadere del dipinto, alcuni elementi morfologici rimangono visibili, assumendo vita propria insieme al soggetto. Tuttavia, ho sempre visto l’uso di espressioni come “coesistenza tra figurazione e astrazione”, molto diffuso quando ero studente, come una polarizzazione troppo generica di un procedere che è proprio della pittura.
Vorrei approfondire una tua recente riflessione su come la pittura possa “provocare” e su quali spazi la pittura possa riempire su e al di là di un muro…
Quella riflessione, scritta per la collettiva Reazione a catena, a cura di Gino Pisapia, in corso da 1/9 unosunove a Roma, si riferiva al fatto che la mia è pittura da cavalletto, il cui scopo è quello di finire su un muro per essere osservata formalmente, discussa, far pensare e divertire – anche nel senso di spostare qualcosa. C’è quindi il lato visionario e picaresco del mio lavoro, trovare uno spazio per quella dimensione senza paura di risultare ridicoli.
Ti sei mai sentito “stupido come un pittore”?
Dopo l’omonima mostra curata da Rossella Farinotti e Simona Squadrito a Villa Masolo, ho iniziato a pensare a questo detto, mai considerato in fondo perché non capivo come l’originale bête del proverbio francese fosse stato tradotto come dumb e in italiano come stupido. Autoironia, complimento o insulto, dobbiamo ancora fare i conti con la brutalità di questo paragone. Ciò che posso dire è che il mio lavoro prende il sopravvento sulla razionalità. Non mi sento né superiore ai mezzi pittorici né al soggetto, ma mi identifico con il mistero di entrambi. Mi sento il mezzo.
Come pittore sei molto rigoroso e “ortodosso”, la tela per te è sempre centrale. Come leggi le manifestazioni di una pittura “nel campo espanso”, dialogante con altri media e discipline?
Un nerd, insomma! Ogni artista a un certo punto capisce il suo ruolo, il piccolo vuoto che vuole riempire o il vuoto che vuole creare. Tela e telaio sono supporti basici che mi richiamano ogni volta a un senso di responsabilità. Con le dovute eccezioni, non vedo la pittura come un medium, se non nella misura in cui ci confrontiamo con una serie di limiti e strumenti, quindi sposterei il tiro sulla consapevolezza di questi limiti e strumenti di cui, comunque, mi interessa il potenziale espressivo. Ognuno si crea i propri limiti. Lo stesso “campo espanso” è una categoria storicizzata che non garantisce nulla se non un limite che rievoca una serie di vicende artistiche e convenzioni da cui poter partire.
Per concludere: la pittura per te rappresenta un mezzo o un fine? E… che cos’è per te la pittura italiana?
Mezzo o fine, la pittura va ridefinita ogni volta. E… se parto da Cavallini e Giotto, ci stiamo dentro? Noi italiani abbiamo sempre un gran da fare.
‒ Damiano Gullì
Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
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