Architetti d’Italia. Francesco Venezia, l’antimoderno
Nuovo episodio della saga di Luigi Prestinenza Puglisi sull’architettura italiana. Stavolta il protagonista è Francesco Venezia, amante delle proporzioni e della misura, come il suo mentore Le Corbusier.
La storia me l’ha raccontata un amico. Ve la ripeto confidando nell’indulgenza vostra e degli interessati. Siamo alla facoltà di architettura dell’università di Genova e il professor Francesco Venezia fa lezione. Affronta il personaggio Le Corbusier e la sua tragica morte a mare la mattina del 27 agosto del 1965 a Roquebrune, Cap Martin in Costa Azzurra: annegamento per malore? Suicidio? Nessuno lo saprà mai. “Distante qualche centinaia di miglia, in un’altra parte del Mediterraneo”, confessa ai suoi studenti, “in quel giorno afoso facevo il bagno. In quel momento sentii una forte scarica elettrica”. Non potrei giurare sulla veridicità della storia, nel senso che non potrei assicurare né che le parole di Venezia ci siano state o siano state esattamente queste né che la scossa elettrica ci sia mai stata, anche se chi me l’ha raccontata è una fonte attendibile. Facendo un po’ i conti, nel 1965 Francesco Venezia, che è nato il 28 settembre del 1944, stava compiendo 21 anni e frequentava la facoltà di architettura a Napoli, dove si laureò cinque anni dopo, nel 1970. E anche se la scossa fosse stata una trovata del professore per suscitare l’attenzione degli alunni, a cui piacciono i fatti romanzati, è una più che verosimile dichiarazione di amore verso colui che Francesco Venezia ha sempre individuato come il Maestro, il principale riferimento poetico, colui che gli ha dato, intendo metaforicamente, la scossa.
Ed è l’amore viscerale per Le Corbusier, a mio avviso, la chiave interpretativa per accedere alle opere di questo architetto campano nato, a dispetto del cognome, a Lauro, in Irpinia.
Ovviamente, come si conviene a un buon architetto, i riferimenti al Maestro sono stati ampiamente metabolizzati e non sono mai troppo evidenti. Infatti nelle opere di Venezia, pur essendovi più di qualche citazione, non è così immediato cogliere né il Le Corbusier purista, quello per capirci di Villa Savoye, né quello brutalista, dell’Unità di abitazione o di Chandigarh, né alcun altro dei tanti Corbu che escono da una analisi attenta dell’opera completa.
Il progettista del gioco sapiente dei volumi sotto la luce si intravede però in trasparenza, attraverso l’ossessione per la misura e le proporzioni. Tanto che, in una intervista che ancora si dovrebbe trovare su YouTube, Francesco Venezia parla ammirato dell’invenzione del Modulor e ricorda un convegno internazionale dal titolo De divina proportione svoltosi tra il 27 e il 29 settembre 1951 nell’ambito della IX Triennale di Milano. Fu in quella sede che Le Corbusier difese a spada tratta le proporzioni in architettura mostrando quanto di classico o, per meglio dire, di classicista ci fosse nella propria opera e sollevando critiche molto aspre: basti tra tutte ricordare quella di Ludovico Ragghianti che si rifiutò di parteciparvi proprio per “l’irrimediabile anacronismo e l’inconsistenza del problema”.
MODERNITÀ ANTIMODERNA
Se questa eredità di Le Corbusier è stata superata da molti suoi allievi, che hanno preferito sondare altre direzioni di ricerca, in cui l’imperativo proporzionale era messo in discussione se non totalmente trascurato, si pensi per esempio ad Alison e Peter Smithson, per Francesco Venezia è diventata un punto centrale di riflessione. La chiave di volta per mettere d’accordo ricerca e tradizione, libertà compositiva e rispetto delle regole e per trovare una linea della modernità che moderna non fosse affatto. E, difatti, credo che se gli domandiate dove è terminata la grande architettura italiana, quella poderosa ‒ una parola che tanto gli piace e ripete spesso ‒ e dalle forme perenni così amate, lui vi risponderà con il Danteum di Terragni. E non oso immaginare cosa vi possa rispondere se gli chiedeste un giudizio sul Centre Pompidou, sui lavori di Frank O. Gehry, su Daniel Libeskind, su Coop Himmelb(l)au o su BIG.
D’altra parte, Francesco Venezia fa parte della classe di ferro del 1944, di coloro che sono stati concepiti negli anni della Seconda Guerra Mondiale. È una generazione che da un lato ha messo a dura prova l’architettura contemporanea, innovandola: nati nel 1944 sono Rem Koolhaas, Bernard Tschumi, Tom Mayne, Massimiliano Fuksas. Ma è anche una generazione che con la modernità si è confrontata duramente, proponendo, soprattutto in Italia, una personale resistenza in nome della continuità con la tradizione. Dello stesso anno sono, per esempio, Claudio Guerrieri D’Amato e Francesco Cellini.
Francesco Venezia l’ambiguità della ricerca di una modernità antimoderna la ha gestita con polso fermo e maestria. Pagandone, però, due prezzi: che sono l’estetismo e la difficoltà di dialogo con le correnti artistiche contemporanee – e sono la maggioranza, se non la quasi totalità, di quelle più rilevanti – che hanno messo in crisi i canoni formali armonici e proporzionali.
Estetismo: fateci caso, le opere migliori da lui realizzate sono quelle dove il livello di funzionalità tende a zero, dove l’esigenza di contemplazione fa tacere ogni altra considerazione tecnica o funzionale. E difatti è un eccellente allestitore di mostre, soprattutto di reperti antichi, come quella a Palazzo Grassi dedicata agli Etruschi che suscitò l’elogio incondizionato di un altro moderno antimoderno come Francesco Dal Co. Mentre si trova poco a proprio agio quando deve rapportarsi con le esigenze pratiche della città contemporanea e delle sue attività, come è avvenuto ad Amiens con il Polo universitario giuridico ed economico.
Non si finirà, però, di dire meraviglie del Palazzo di Lorenzo progettato a Gibellina nel 1981 e terminato nel 1987. È un’opera sublime che costruisce sulle rovine un’altra rovina, in cui la luce è gestita con maestria, i materiali con sensibilità e i percorsi secondo i principi della promenade architecturale. Peccato che non serva a niente e non solo per la scellerata gestione dei beni pubblici tipica delle realtà meridionali e in particolare siciliane, ma perché è un’opera talmente autoreferenziale che qualsiasi concretezza funzionale ne distruggerebbe la magia, ammesso che vi si riescano a recuperare un numero sufficiente di sale per farci qualcosa con costi di gestione sopportabili e si riesca ad attrezzarla con una efficiente dotazione di impianti. Credo però che si tratti di problemi poco interessanti per Francesco Venezia, il cui ideale è preparare la costruzione a diventare anch’essa un affascinante rudere. Un oggetto di memoria sul quale scrivere e recitare poesie. Le forme pure, racconta l’architetto, sono perenni ed è questo l’ideale della ricerca progettuale.
IL CONFRONTO CON ARP
Il secondo prezzo è la difficoltà di dialogo con la contemporaneità, proprio perché quest’ultima di regola si muove su tutti altri assunti formali. Lo si è visto, per esempio, nella mostra che è stata allestita, dal 30 settembre 2016 al 15 gennaio 2017, alle Terme di Diocleziano sull’opera di Jean Arp. Il quale, lo ricordiamo, era sodale di Theo van Doesburg con il quale aveva lavorato, insieme alla moglie Sophie Taeuber-Arp, al Café l’Aubette, era un artista dada e anche costruttivista, amico di El Lissitzky.
L’opera di Arp, quindi, poco accettava di farsi imprigionare nella gabbia proporzionale allestita, sia pure con grande abilità, da un divino classicista. Tanto uno puntava, con oggetti fluttuanti nello spazio, alla libertà anarchica e smisurata, tanto l’altro alla misura, contenendo le opere in mostra attraverso grandi bacheche squadrate che cercavano inutilmente di mediare gli oggetti in mostra con la presenza incombente delle aule romane. Tanto uno era plasticamente movimentato, tanto l’altro era armonicamente statico. La sensazione era di uccelli in gabbia. O, se è permessa un’altra metafora, come se si fosse affidata una canzone moderna a un tenore, sia pure dotato di bella voce. Potrebbe però mai un Luciano Pavarotti, un Andrea Bocelli cantare i Rolling Stones? Certo, ma il risultato sarebbe tutt’altra cosa dall’interpretazione di Mick Jagger; un tradimento che ci racconta più delle contraddizioni italiane che delle intenzioni originarie di un autore, quale Arp, che Francesco Venezia avrebbe voluto valorizzare. C’è poco da fare: se vuoi essere antimoderno a qualcosa devi pure rinunciare.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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