Il futuro del Ponte Morandi. L’opinione dell’architetto Vincenzo Ariu

Un mese dopo il crollo del Ponte Morandi, l’Italia si interroga sulla sua ricostruzione. L’architetto ligure Vincenzo Ariu riflette sulle possibili alternative, introducendo il tema della memoria di un’opera simbolo della Genova moderna.

Il collasso strutturale del Ponte Morandi a Genova è l’ennesima tragedia che evidenzia la fragilità del nostro Paese, delle sue infrastrutture, del territorio e di tutto quello che è in sostanza il patrimonio storico e/o contemporaneo. Ogni volta che accade un evento catastrofico del genere, l’emozione prende il sopravvento nel dibattito pubblico ma anche tecnico e politico. La prima emozione collettiva è psicologica, riguarda l’empatia che ognuno di noi prova nel momento in cui si immedesima nelle vittime. Più l’evento tragico è vicino a noi, ai luoghi che frequentiamo, più facile è immaginarsi come potenziale vittima della catastrofe. La seconda emozione è l’indignazione, che automaticamente si trasforma nella volontà di individuare il responsabile dell’evento per poter infliggere la giusta punizione, la catarsi collettiva. La terza emozione è la sensazione di eccezionalità dell’evento e quindi la necessità di decisioni d’urgenza per risanare il “luogo” della distruzione ristabilendo l’ordine infranto, anche a costo di derogare leggi e norme ordinarie e la necessità di decisioni politiche forti e autoreferenti del potere esecutivo.

Il Ponte Morandi è stato per cinquanta anni l’immagine della Genova moderna: la sua arditezza lo avvicinava nell’immaginario ai grandi ponti del mondo“.

Le emozioni, come sappiamo, compromettono la razionalità e l’equilibrio delle valutazioni e rischiano di indirizzare le scelte per il superamento della “crisi” verso soluzioni radicali, con la convinzione che il “male”, le malefatte debbano essere recisi all’origine. In effetti, se il “male” fosse circoscrivibile, la “pulizia” risolverebbe il problema (i problemi) e la realtà si trasformerebbe nel migliore dei mondi possibili. Purtroppo il male, o meglio la zona grigia, in questo caso è parte integrante delle modalità del fare che riguardano l’intera società italiana e per certi versi lo stato della stessa civilizzazione contemporanea. Da una parte il male è rappresentato dalla cattiva manutenzione dell’infrastruttura, fatto d’altronde oggettivo, la cui responsabilità ricade sulla società Autostrade e i suoi tecnici, con l’aggravante che tale inadempienza ottimizzava i guadagni. Dall’altra il male è rappresentato dalla concezione stessa del ponte, ardito e spettacolare, che sfida la gravità con la potenza della Tecnica. L’artefice, l’ingegnere Morandi, è, come tutti i grandi innovatori, l’uomo che sfida i limiti del fare umano. Il cemento armato, materiale feticcio della modernità, il suo uso spregiudicato nel Novecento è esso stesso rappresentazione del male nel sentimento comune. L’emozione, quasi automaticamente, individuato il male, non può che portare alla tabula rasa, eliminare l’immagine stessa del ponte, un po’ come la statua del dittatore caduto in disgrazia, per immaginare il mondo nuovo purificato, mondo finalmente e definitivamente perfetto. Purtroppo le dinamiche storiche delle civiltà ci dimostrano da sempre che la “sequenza tragedia”, individuazione del male e successiva ripartenza in nome del bene, è solo un’illusione: il fare umano è imperfetto, è grigio, il male e il bene spesso si confondono. Il Ponte Morandi è stato per cinquanta anni l’immagine della Genova moderna: la sua arditezza lo avvicinava nell’immaginario ai grandi ponti del mondo. Ricordo ancora l’emozione provata la prima volta che lo attraversai, diretto al Gaslini, per me bimbo era la porta della metropoli. Il fatto che adesso rappresenti la sintesi del male mi sembra quantomeno ingeneroso. Penso che l’opera di Morandi meriti di essere considerata come bene culturale al pari di architetture del passato che, per incuria o a causa della tracotanza umana (hýbris), sono collassate.

A PROPOSITO DELLA RICOSTRUZIONE

In questi casi il dibattito si divide tra i sostenitori della ricostruzione dove era e come era e i sostenitori del nuovo. Ovviamente il come era e dove era è sentimento comune quando l’opera distrutta è considerata vittima del male e non essa stessa caricata di significati negativi. L’emozione anche in questo caso rischia di giocare un brutto scherzo e il sentimento comune associa il male non solo alla parte di ponte strallato e le sue imperfezioni come l’uso del cemento, a sua volta caduco, per proteggere i trefoli in acciaio ad alta resistenza, ma a tutto il viadotto che scavalca la Val Polcevera, costruito secondo principi non dissimili dagli altri viadotti dell’autostrada ligure. Il “quasi” come era dovrebbe quindi essere inteso come la riqualificazione del ponte nella sua interezza, intervenendo sulle parti non più recuperabili e ipotizzando una soluzione capace di perfezionare l’idea di ponte strallato di Morandi. Eliminare l’idea di ponte strallato rischia di trasformarsi in una sorta di rimozione della memoria, volontà collettiva di occultare la colpa.
L’alternativa, altrettanto interessante, potrebbe essere l’elaborazione della tragedia proponendo un’opera di ingegno, mettendo in competizione i migliori professionisti, capace di rappresentare una nuova identità della città di Genova. In entrambe le soluzioni, la memoria del Ponte Morandi non andrebbe perduta e l’essenza della città, le sue stratificazioni storiche, continuerebbe a essere tramandata alle future generazioni.

Vincenzo Ariu

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Vincenzo Ariu

Vincenzo Ariu

Consegue nell’anno accademico 1993/94 la Laurea in Architettura e nel 2002 il Ph.D. in progettazione architettonica presso la Facoltà di Architettura di Genova. Dopo aver lavorato nello studio Grossi Bianchi-Melai (1995-98), fonda lo studio Ariu+Vallino Architetti, con il quale vince…

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