Architetti d’Italia. Giancarlo De Carlo, l’isolato
Nuovo capitolo della rubrica di Luigi Prestinenza Puglisi dedicata alle storie degli architetti italiani. Stavolta tocca a Giancarlo De Carlo.
L’architettura, diceva Giancarlo De Carlo, è troppo importante per essere affidata agli architetti. E molti di loro non gli hanno perdonato questa affermazione.
Era un personaggio difficile. Se ne accorse Ernesto Nathan Rogers, che lo aveva coinvolto nella redazione di Casabella quando nel 1957 si dimise, con la motivazione di una gestione troppo personalistica della rivista da parte del suo direttore ma, probabilmente, per la insanabile diversità culturale che oramai li divideva. E, difatti, Rogers puntava, se lo si può dire con un paradosso, a una via antimoderna alla modernità, tanto da preferire la collaborazione di Vittorio Gregotti e poi di Aldo Rossi e Gae Aulenti.
Giancarlo De Carlo, invece, aveva ben chiaro che occorreva uscire dalla crisi del Movimento Moderno, aprendo all’Europa, soprattutto del nord.
Da qui la sua adesione al Team 10. E cioè al gruppo che nel 1956 aveva messo in crisi i Congressi Internazionali di Architettura Moderna, considerando superato l’insegnamento di Le Corbusier, di Walter Gropius, di Mies van der Rohe, di Siegfried Giedion. I principali esponenti del team 10 erano Alison e Peter Smithson, Jacob Bakema, Georges Candilis, Aldo van Eyck, Shadrach Woods e, tra i simpatizzanti, c’erano Ralph Erskine, Herman Hertzberger, Reima Pietilä.
Nel 1978, quando in Italia tutti parlano di architettura della città, di Tendenza, di Metafisica, Giancarlo De Carlo pubblica il primo numero di Spazio e Società. In copertina un progetto di Alison e Peter Smithson. Gli anti-Rossi che concepiscono la città per strutture funzionali e non per emergenze monumentali e ripetitività di tipi edilizi.
De Carlo è impegnato a partire dagli Anni Cinquanta a Urbino. Grazie all’appoggio entusiasta del rettore Carlo Bo, progetta il Piano Regolatore e buona parte degli insediamenti universitari: le case per i dipendenti, i collegi, la facoltà di economia e commercio, di giurisprudenza e di magistero e gli interventi a Palazzo Passionei, per ospitare la biblioteca, e a Palazzo Battiferri. Una città nella città che ridisegna il territorio e dove la conoscenza e il rispetto della realtà storica urbinate non lasciano spazio alla nostalgia.
IL VILLAGGIO MATTEOTTI
L’opera, a mio avviso, più emblematica di De Carlo è il Villaggio Matteotti a Terni, che lo impegna a partire dal 1970. È una delle prime esperienze in cui la partecipazione degli utenti alle scelte abitative avviene secondo un percorso studiato e programmato. L’architettura, appunto, è troppo importante per potersi svilire a rispecchiare le velleità poetiche di un architetto demiurgo. Nasce dal lavoro di una squadra che comprende gli abitanti e coinvolge altre specializzazioni. Per esempio, tra i professionisti coinvolti troviamo il sociologo Domenico De Masi.
Ricordo che alla fine degli Anni Settanta andai a visitare il complesso con una amica la quale abitava a Roma in un complesso di case popolari dalle parti della Prenestina, vicino alla tangenziale. Lei non aveva studiato architettura. Quando girammo per i percorsi pensili del villaggio, non riusciva a credere che si trattasse di case popolari. E, in effetti, non riuscivo a crederlo neanche io, imbevuto come ero di pessimi esempi di edilizia sociale italiana. Sembrava che il nord Europa, con la sua civiltà abitativa, fosse venuto a trovarci. Ed era nell’Europa del nord, e non nel Mediterraneo, che in quegli anni occorreva cercare.
Qualche perplessità venne quando il Villaggio Matteotti fu pubblicato da Casabella nel gennaio del 1977, il primo numero diretto da Tomás Maldonado. Vi erano pubblicate foto che mostravano come l’interno delle case fosse stato compromesso dal gusto kitsch degli abitanti. Gli arredamenti delle stanze stridevano non poco con la purezza del cemento a faccia vista degli esterni e i lunghi infissi colorati in rosso. La sensazione era che la partecipazione fosse stata, se non manipolata, fortemente indirizzata. E che, probabilmente, gli abitanti del Matteotti avrebbero preferito un tipo di architettura più da strapaese, con intonaci colorati, tetti in coppi, persiane in legno. La partecipazione, se si toglie forse Ralph Erskine con i suoi mirabolanti risultati ottenuti in schemi abitativi quali Byker Wall, o Lucien Kroll con i suoi pastiche residenziali, è sempre stata un problema e, comunque, ha sempre comportato una certa dose di prevaricazione da parte dell’architetto. È, insomma, difficile capire oggi quanta reale e condivisa partecipazione ci sia stata a Terni.
Certo è che le esperienze successive, dimostrano che Giancarlo De Carlo, fedele ai propri assunti democratici, è stato più volte capace di mettere in discussione il proprio linguaggio. Le abitazioni a Mazzorbo, realizzate tra il 1980 e il 1997, per esempio, hanno ben poco della astrattezza compositiva del Villaggio Matteotti, sono colorate vivacemente seguendo la tradizione locale e rispondono, senza cadere nello strapaese, a un’idea di abitazione più condivisibile dalla popolazione.
PERPLESSITÀ E ANTIPATIE
Per De Carlo i preconcetti stilistici e la purezza del linguaggio possono diventare una prigione che ci impedisce di relazionarci con la realtà. Da qui le sue perplessità nei confronti di architetti quali Frank O. Gehry, Zaha Hadid, Rem Koolhaas, da lui denunciati come inguaribili formalisti.
Con il risultato che De Carlo ha goduto poco delle simpatie degli accademici, che lo vedevano rinunciare alla coerenza stilistica e, insieme, degli estimatori delle nuove linee di ricerca, che lo vedevano restio a inserirsi lungo le più recenti vie della sperimentazione formale.
E, in effetti, la sua vita è stata segnata dall’isolamento, a partire dagli anni dell’insegnamento universitario allo IUAV, dove veniva giudicato un urbanista dai professori di composizione e un progettista di architettura dai professori di urbanistica. Sono note le sue polemiche con Aldo Rossi, che si batteva per l’autonomia dell’architettura, e con Giovanni Astengo, che si batteva per una specificità disciplinare dell’urbanistica. Perse con entrambi, e per lui che credeva nell’integrazione tra architettura e urbanistica, fu un’amara sconfitta.
Cosa fare quando si è isolati all’interno del mondo accademico? Semplice: costruire una propria scuola fondandola proprio nel luogo in cui si è avuta apertura di credito: a Urbino.
L’esperienza dell’ILAUD, l’International Laboratory of Architecture and Urban design, credo sia stata una delle più importanti esperienze formative offerte agli studenti, a partire dalla metà degli Anni Settanta. Una scuola che, contro ogni provincialismo, ha coinvolto una trentina di università internazionali a partire dall’idea che “architettura e urbanistica sono parti dello stesso problema… e che la loro interdipendenza è tale che nessuna azione può essere concepita in una delle due senza la coscienza della sua reciprocità con l’altra”.
Nei corsi estivi si ritrovavano studenti e docenti partecipando a conferenze, presentazioni di lavori, sopralluoghi sulle aree di progetto, visite, spettacoli e feste. Due mesi, poi ridotti a uno, in cui era possibile vedere l’architettura come non la si sarebbe potuta mai fruire all’interno delle facoltà universitarie.
Il destino degli innovatori, e lo testimonia anche la recente mostra del Maxxi dedicata a Bruno Zevi e affidata ai tafuriani Pippo Ciorra e Jean-Louis Cohen, è di essere banalizzati e traditi. Ricordo di essere rimasto sbalordito quando, nel giugno del 2005, al Maxxi inaugurò una mostra dedicata a Giancarlo De Carlo. Mi aspettavo che ne uscisse il personaggio aspro, difficile, provocatorio, il bastian contrario. A ricordarlo erano però accademici distanti anni luce dal suo modo di pensare e agire, quali Franco Purini. È uno strano destino questo, che ha come risultato di rendere le nostre menti incapaci di ricordare la storia come è stata. La miopia del tempo sfuma, mette ogni diversità in un calderone, dimentica scontri, diversità e tensioni. Ci si illude di tramandare la memoria, si restituisce invece una fotografia convenzionale. Giancarlo De Carlo, pensavo, avrebbe meritato maggior attenzione critica.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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