Eppur si muove. Quando l’Europa afferma di impegnarsi per migliorare la vita dei migranti “a casa loro”, non fa sfoggio di pura retorica. Né si limita ad applicare ricette prevedibili e forse consumate, se tra le strategie messe in campo ha anche deciso di investire – e può sembrare un azzardo, ma è un azzardo ben calcolato – in un settore all’apparenza marginale quanto sfuggente e ineffabile: l’economia creativa.
Creative Mediterranean è infatti il nome del progetto, implementato da UNIDO – United Nations Industrial Development Organization e finanziato dall’Unione Europea insieme all’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, che dal 2015 promuove la crescita di tredici cluster – i buoni vecchi cari distretti tanto cari alla storia dell’industria italiana – di sette Paesi del bacino meridionale del Mare nostrum. Dal Marocco al Libano, passando per Algeria, Tunisia, Egitto, Giordania e Palestina, l’idea è quella di sostenere l’economia creativa dei paesi dell’area MENA – Middle East North Africa –, cercando di trasformare i consumati stereotipi dell’artigianato artistico locale in nuovi prodotti con appeal da esportazione. Il payoff del programma, Resilience Through Creativity, la dice lunga su approccio e metodologia: se il design è un mezzo da applicare al problem solving, la creatività si trasforma in una leva per superare le criticità di un contesto svantaggiato. Mentre le collezioni implementate dai distretti coinvolti – tra gli altri, il Nablus Furniture Cluster in Palestina, il distretto del rame a Costantina in Algeria, quello della moda ad Amman e delle ceramiche di Nabeul in Tunisia – già dimostrano come il potenziale inscritto nella cultura locale possa essere rinnovato con soluzioni sorprendenti.
L’INTERVISTA
Ma come rendere più competitivi i progetti di design e artigianato artistico del Mediterraneo meridionale? Come rilanciare professionalità e occupazione? Ne abbiamo parlato con Giulio Vinaccia, designer vincitore insieme a UNIDO dell’ultimo Compasso d’Oro per il Design per il Sociale con il progetto Tsara, qui in veste di art director del progetto.
Ci spieghi cosa c’entra il design con la resilienza?
Credo fermamente che il design sia uno strumento straordinario di risoluzione di problemi. Più che un mestiere, lo considero una attitudine con cui confrontarsi con il mondo, un’attitudine di per sé resiliente. Il non abbattersi di fronte ai problemi di una produzione, il riuscire a mantenere l’idea del progetto senza cambiamenti radicali di fronte a una committenza aggressiva… La scuola del design è una scuola di resilienza.
Come insegni a trovare nella tradizione una risorsa e un senso di identità da rinnovare?
L’identità e l’appartenenza non si possono insegnare, bensì possono essere riscoperte attraverso un processo pratico, dove dalla teoria ideologica (ad esempio: dobbiamo lavorare con elementi della nostra cultura nazionale!) si passa a un’azione che, attraverso esercizi visivi e pratica applicata al prodotto, fa riscoprire – insieme – il valore e le possibilità contemporanee della tradizione. La tradizione, naturalmente, va intesa a tutto campo, non considerando solamente quella ufficiale. In Brasile abbiamo lavorato ispirandoci sia all’arte del barocco portoghese sia ai graffiti delle favelas.
Per un progetto come Creative Mediterranean, qual è il potenziale economico in gioco? E le difficoltà più grandi?
I dati delle Creative Industries nel settore del MENA – Middle East North Africa sono di per sé impressionanti, dai tredici cluster è previsto un turnover economico annuale di 960 milioni di Euro pari allo 0,2% del PIL, di cui 400 milioni in export, corrispondenti allo 0,3% totale. 55 sono le istituzioni coinvolte tra università, istituzioni di cultura, associazioni professionali ed enti governativi; 19.300 le piccole imprese interessate, di cui 12.500 micro imprese pari al 64% del totale nei sette Paesi, 6800 le PMI pari al 35% e 180 realtà industriali o semi-industriali; 280mila le persone impiegate di cui il 56% (155mila) del cosiddetto “settore informale”. Le difficoltà più grandi con cui ci confrontiamo sono per lo più di tipo strutturale (mancanza di infrastrutture, strade, energia, servizi e accesso al credito) e macro politiche, che colpiscono indirettamente tutte le imprese della regione.
Creative Mediterranean è un progetto inevitabilmente “a sud”. Il sociologo Franco Cassano diceva che il sud non è un non-nord o una forma arretrata di nord, ma una identità e una dimensione tutta sua.
Il progetto a sud (come del resto anche quello fatto per il nord) ha bisogno di un suo passo e un’attitudine precisa. Venendo da un’esperienza sudamericana [Giulio Vinaccia ha vissuto fino ai 27 anni in Venezuela, N.d.R.], non ho trovato in questo caso molte differenze a lavorare, ad esempio, con una PMI egiziana. Stessi e ugualmente importanti tempi di attesa, di “assimilazione” del progetto, stessa ritualità nel dare e ricevere ordini e consigli, stessa infinitesima distanza fra il privato e il pubblico, stesso assoluto coinvolgimento con il progetto. Dico ridendo che le mie prime parole in arabo sono state ghadaan (domani) e la mushkilatan (non c’è problema) e mi hanno accompagnato per diversi mesi fino a capire la velocità e il ritmo locale.
Credi che, così come accade in altre industrie creative quale ad esempio il cinema, esista realmente una mancanza di rappresentazione della diversità? Il design è figlio di una storia occidentale, che come tale converte le istanze della molteplicità verso i codici della propria cultura?
Certamente viviamo in un mondo dominato dalla cultura occidentale, dove quello che viene considerato design del “moderno” è tutto costruito sull’ideologia dell’international style e quello che integra elementi culturali locali era etichettato come ethnic design (del resto, come i commercianti portoghesi in Africa: tutti gli oggetti che le tribù locali si rifiutavano di vendere venivano chiamati fetiço, attribuendo loro un valore magico). Negli ultimi anni tutto ciò sta cambiando: in un mondo globalizzato la ricerca della propria identità è esplosa in tutti i campi e gli esempi più creativi sono frutto dell’ibridazione di tradizioni e culture. L’Italia del design è arrivata da pochissimo a questo traguardo, stretta fra il suo provincialismo e la tradizione dei “Maestri” del design degli Anni Cinquanta e Sessanta. Il processo di cambiamento è dunque in corso e arriveremo a un universo di prodotti espressione di ogni cultura, ma fruibili da tutti? Spero di sì.
Sei stato forse il primo, almeno certamente in Italia, a lavorare con continuità a progetti di design per lo sviluppo. Come ne è stata influenzata la tua professionalità? Quali caratteristiche devono maturare i designer per lavorare a progetti di questo tipo?
Nella mia “carriera” di designer per lo sviluppo ho realmente fatto di tutto: dal presentarmi come speaker in un senato nazionale al presenziare accordi multinazionali fino a distribuire polli in campagne politiche regionali. Ogni volta che seleziono un gruppo di giovani designer per realizzare questo tipo di lavoro, gli intimo di “scordarsi” del progetto e di concentrarsi sui rapporti tra società, designer, produttore, ambiente. Per poterlo fare, servono competenze molto più ampie di quelle insegnate nelle scuole di design. La base di tutto rimane la curiosità verso ciò che è sconosciuto, se non ce l’hai non potrai mai fare questo mestiere.
Raccontaci un aneddoto dai tuoi progetti in giro per il mondo.
Durante il progetto NANDEVA, realizzato all’inizio del 2000 nelle zone Guaranì della frontiera fra Brasile, Paraguay e Argentina, abbiamo riunito in un workshop artigiani e designer per poter realizzare un prodotto transnazionale, che rompesse le barriere delle frontiere e restituisse alla regione l’identità del Guaranì originale, come nell’utopia della nazione gesuitica del XVI secolo. Dopo aver avuto l’ok di sponsor e governi, avevamo bisogno di un sistema di identificazione che permettesse ai doganieri di riconoscere gli artigiani dai contrabbandieri: le autorità erano disposte a chiudere un occhio, ma noi volevamo una presa di posizione ufficiale, dato che nel delirio del Mercosul (il mercato comune del Sud America) alle multinazionali era permesso far passare le merci senza tasse, mentre gli artigiani non potevano attraversare il ponte fra Paraguay e Brasile con le loro merci.
Come andò a finire?
Ci accordammo finalmente sull’uso di una maglietta speciale con il simbolo del progetto, come quelle in uso nel Carnevale in Brasile (gli abadà). Doveva essere realizzata in sole cento unità, ma l’occasione per il produttore di magliette fu troppo ghiotta per non essere sfruttata. Il giorno dopo, data di inizio del workshop, migliaia di persone attraversarono il ponte, tutte con la nostra maglietta! Realizzando così, proprio attraverso un progetto di design, quel mercato comune che i governi della regione non erano riusciti a creare.
– Giulia Zappa
www.vinaccia.it
www.medcreative.org
www.unido.org
www.agenziacooperazione.gov.it
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