Consigli per giovani designer. Intervista a Giulio Iacchetti
Il designer cremonese, arrivato alla professione da autodidatta e due volte Compasso d’Oro, ha inaugurato l’anno accademico dell’ISIA di Faenza con una lectio incentrata sul desiderio. Ne abbiamo approfittato per una chiacchierata sulla formazione.
“La fantasia è come la marmellata”, scriveva Italo Calvino, “bisogna che sia spalmata su una solida fetta di pane”. Per molti designer, specialmente quelli di ultima generazione, la fetta di pane sulla quale costruire la propria identità professionale e la propria carriera è rappresentata da un percorso di studi istituzionale in una facoltà di architettura o in una delle molte scuole specializzate nei diversi ambiti della progettazione, in Italia e all’estero, ma questa non è l’unica strada per accedere alla professione. Giulio Iacchetti (Castelleone, Cremona, 1966), due volte Compasso d’Oro, all’attivo numerose mostre e una lunghissima lista di collaborazioni con aziende prestigiose, da Alessi a Foscarini passando per Magis e Danese, lo sa bene.
Il suo avvicinamento al design avviene in maniera non convenzionale, nella seconda metà degli Anni Ottanta, quando lascia la facoltà di architettura e alterna la pratica nello studio di un architetto alla frequentazione di una scuola serale di disegno industriale nel cremasco. Nella sua formazione hanno un ruolo considerevole anche le lunghe ore di lavoro solitario, nel garage di casa a costruire oggetti, e la ricerca di un contatto con le aziende del settore portata avanti in autonomia, senza la mediazione di scuole e concorsi.
Lo abbiamo incontrato a Faenza, dove ha inaugurato l’anno accademico dell’ISIA con una lectio magistralis dal titolo Design: disegnare il desiderio. Ci ha parlato di formazione, dal contenuto della “cassetta degli attrezzi” necessaria a un giovane designer al valore dell’artigianato e del “fare con le mani” per finire con un’anticipazione sulle novità di Internoitaliano che vedremo al prossimo Fuorisalone.
L’INTERVISTA
Tu sei in gran parte autodidatta. Che cosa può insegnare il tuo percorso a un ragazzo che si avvicina alla professione?
La parola autodidatta ha molto a che fare con la mia formazione, in effetti. In un certo senso ero designer senza saperlo, realizzavo le cose con le mie mani anche ‒ e lo dico senza vergogna ‒ per sopperire a una sorta di precarietà economica. Con i miei amici avevamo messo insieme un gruppo, non avevamo il becco di un quattrino quindi ho costruito la maggior parte degli strumenti lavorando il legno e usando pezzi di recupero. Laddove manca tutto bisogna risolvere aguzzando l’ingegno, in modo che il risultato sia funzionale alle esigenze pratiche. Questa è la mia storia, l’ho raccontata agli studenti dell’ISIA però non penso sia il percorso ideale, anzi. Da ragazzo non conoscevo scuole di questo tipo, avevo scelto la facoltà di architettura e frequentato i primi due anni, anche con un discreto successo, per poi capire che quel tipo di percorso non faceva parte della mia vita. Forse a quei tempi neanche Milano faceva parte della mia vita, nonostante adesso ci abiti felicemente. Ai ragazzi dico: non dovete fare come ho fatto io.
Negli anni Ottanta non c’era internet, non bastava un clic per informarsi su tutti i percorsi di studio disponibili…
È vero, però c’erano altri modi per reperire le informazioni. Sono convinto che il nostro antagonista principale sia la pigrizia, che ci induce a fare scelte comode, magari vicino a casa, evitando situazioni nuove che possono mettere in crisi i nostri equilibri. Anche nel lavoro rappresenta un’insidia, perché progettare nello stesso modo in cui hai progettato ieri, risolvere un problema nello stesso modo, non funziona.
C’è qualcosa che vorresti aver imparato a scuola?
In generale, credo che la scuola sia un ottimo percorso per arrivare vicino al proprio limite, da lì in poi te la devi cavare da solo. Chi fa un percorso personale dovrà percorrere una strada più lunga e impervia. In tempi diversi ho frequentato delle scuole perché non mi bastava quello che avevo portato a casa da solo e sentivo il bisogno di fare altre esperienze. Mi sono anche laureato in Beni culturali e artistici a Ravenna, studiando la notte, perché lo sentivo come un dovere personale e mi piaceva l’idea di trovare una misura nello studio, nel sacrificio. Una cosa che mi sarebbe piaciuta è avere a che fare, come allievo, con certi maestri ‒ Castiglioni, Sottsass e tanti altri ‒ che erano ancora attivi quando ho cominciato a fare questo mestiere e che ho avuto modo di incontrare partecipando a conferenze o nei corridoi della Triennale. Il loro insegnamento, però, l’ho trovato nei loro progetti.
Nel tuo curriculum ci sono oggetti “disobbedienti” [Oggetti Disobbedienti era il titolo della personale di Iacchetti organizzata nel 2009 alla Triennale di Milano, N.d.R.] ma anche oggetti “inutili”, puri prodotti di ricerca. Penso per esempio ai Coltelli Inutili, del 2008, o alla serie degli Ossi, un vero proprio “lavoro di fantasia” nell’accezione munariana. Le scuole di design oggi sono molto orientate al risultato, si moltiplicano contest e graduation show, gli studenti cercano già sui banchi di scuola di rendersi appetibili alle aziende. Quanto contano, secondo te, i momenti di ricerca libera, fine a se stessa, nella formazione di un designer?
Moltissimo. Il tempo della formazione dovrebbe essere quello della ricerca e della sperimentazione piuttosto che quello della prestazione. Le scuole sono indotte a cadere in questo equivoco perché ci si aspetta un posizionamento immediato nel mondo del lavoro, ma non possono sfornare soltanto tecnici o bravissimi designer, altrimenti mancherebbero a uno dei loro compiti. Cercare un contatto con le aziende non è sbagliato, però le aziende hanno bisogno anche di persone che siano votate alla sperimentazione, che sappiano allargare i propri orizzonti e dilatare il sistema nel quale si trovano a operare.
Tu e l’ISIA avete in comune un interesse per le connessioni tra artigianato e design. Quanto è ancora importante imparare a fare le cose con le mani?
Fare con le mani è misurare se stessi, è importantissimo per conoscere i limiti e le potenzialità di ogni materiale, o anche soltanto per capire quanto poco siamo capaci di usare le mani. I gesti dell’artigiano ci sembrano fluidi, naturali, ma non è così. Quando vedevo mio nonno scolpire il legno pensavo fosse semplice, quando poi ho cominciato a usare i suoi attrezzi, spesso di nascosto, mi sono ritrovato con le mani insanguinate e piene di tagli. Il rapporto che posso instaurare con l’artigiano è fecondo per entrambi, anche perché non esiste un designer teorico, un designer che non abbia realizzato oggetti o reso tridimensionali le sue idee. Un consiglio che darei a un giovane che fatica ad approcciare le aziende è quello di concentrarsi sugli artigiani, in particolare quelli della sua zona. Tornando alle scuole, credo che uno dei punti di forza dell’ISIA sia proprio il suo legame con il distretto artigianale della ceramica. La scuola si specchia nel territorio e il territorio vede nella scuola un’area di ricerca e di sperimentazione.
Questo aspetto non rischia di perdersi con le nuove tecnologie, per esempio la stampa 3D, che permette a chiunque di diventare maker?
Non credo. La stampa 3D è una modalità per realizzare oggetti che si somma a molte altre, inoltre non si adatta a grandi tirature né a oggetti di dimensioni importanti. Come dice un mio amico, poi, il fatto di possedere una stampante non fa di te una casa editrice.
Molti tuoi progetti contengono un elemento di critica sociale. Secondo te è importante, per un giovane che si forma, avere una visione del mondo, un’idea anche politica del design?
Non credo sia fondamentale. Questa professione è così radicata in me che non è più una professione ma una passione, o addirittura la mia vita, quindi trovo logico mettere le mie idee nelle cose che faccio. La grande forza del design italiano è il fatto che la mente, il pensiero, venga sempre prima della matita. Nel mio Pantheon personale di progettisti, su tutti spicca Enzo Mari, che apprezzo anche per il suo rigore e per l’adesione a certi valori politici. Però stiamo parlando di oggetti e con gli oggetti raramente si fanno le rivoluzioni. Se va bene cambiamo un po’ noi.
Tutto qui?
Una cosa disegnata bene fa bene allo spirito ma è tutto sommato inutile, non siamo medici in prima linea. Gli oggetti sono profondi evocatori di pensieri, emozioni, ricordi. Tutti noi abbiamo un altare laico di oggetti che teniamo vicini ma con loro si consuma un’esperienza personale, non necessariamente riconducibile a un discorso sulla società nel quale tanti si possano riconoscere. Non voglio sminuire il mio ruolo ma ricondurre il tutto a una sfera più intima, introspettiva. Lo trovo liberatorio, è un po’ come la parabola del servo inutile nel Vangelo: facciamo solo quello che dobbiamo fare.
Su che cosa stai lavorando in questo periodo?
Il mio studio è onnivoro. Abbiamo una sessantina di progetti aperti, non tutti su commissione. Ci sono lavori di ricerca pura, progetti espositivi, una piccola serie di souvenir dedicati all’Italia, dei frigoriferi, del packaging, una caffettiera con un sistema innovativo all’interno che sfiora anche un tema brevettuale…
E per Internoitaliano? Puoi anticiparci qualcosa?
Stiamo lavorando a una sedia in alluminio che esporremo al Fuorisalone. Si tratta di una sedia in lamiera, tagliata e piegata con una lavorazione semplice, fatta in modo da suggerire l’idea di una lavorazione molto più complessa che non potremmo mai permetterci. Fare una piccola serie con un materiale che imporrebbe una serie più grande mantenendo un prezzo corretto è una piccola magia. Ci lavora un artigiano meraviglioso di Chianciano Terme, Emanuele Lispi. Un ragazzo giovane con una grande passione e una volontà indomabile di risolvere i problemi.
‒ Giulia Marani
www.giulioiacchetti.com
www.isiafaenza.it
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