Lei è Jennifer Lawrence, la protagonista della fortunata serie cinematografica degli Hunger Games. Ma sfido chiunque a riconoscerla al primo sguardo sulle pagine di un magazine sfogliato in treno, in aereo o al bar. La scelta del bianco e nero è coerente. A essere ritratti sono infatti un jeans, una t-shirt bianca con sottile scritta nera e tutt’al più una striminzita giacchetta. Protagonista dell’immagine sono le borse che cambiano di scatto in scatto: oggetti che appartengono alla fascia dei prodotti di lusso. Da 1.200 a 4.000 euro con i classici charmes ottonati che compongono il nome del marchio.
Tutto bene? Mica tanto. Perché diviene automatico chiedersi: se i prezzi sono questi, se il posizionamento è questo, che senso ha il mood minimalista dell’immagine? Monsieur Dior, stilista e imprenditore, è stato tra i padri fondatori della couture che al quel tempo – stiamo parlando degli Anni Quaranta – non poteva che essere francese, anzi parigina. LVMH, il più grande tra i gruppi del lusso attuale, proprietario del marchio, è basato sempre lì a Parigi: le radici sono dunque comuni.
“C’è da chiedersi se il sistema moda come lo abbiamo conosciuto non sia definitivamente tramontato”.
Qual è allora il senso di un’immagine costruita per essere il più possibile sovrapponibile a quelle a cui ci ha abituato H&M, tra i campioni dell’abbigliamento low cost? C’è da chiedersi se il sistema moda come lo abbiamo conosciuto non sia definitivamente tramontato. Anche perché, se Atene piange, Sparta non ride. Il principale competitore di LVMH è il gruppo Kering (leggasi Pinault, quello delle mega-fondazioni d’arte a Venezia e ben presto a Parigi), che tra i suoi marchi ha Saint Laurent. Qui un giovanotto accasciato sul marciapiede, che non sta ascoltando musica trance, di cui non vediamo il viso ma del quale riconosciamo senza incertezze l’attitudine indotta da un uso certo non terapeutico di oppiacei, è il protagonista dell’immagine. Tutto molto trendy o cretino?
– Aldo Premoli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #38
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