Usare la realtà aumentata per interagire con gli oggetti presenti nello spazio fisico, aggiungendo uno strato “digitale” sopra a quello reale. E posizionare la propria arte al MoMA senza chiedere il permesso. Sono queste le idee alla base della performance “Hello, we’re from the Internet”, che si è svolta nelle sale del Museum of Modern Art di New York nei giorni scorsi. Autore dell’intervento, che si concentra sulla stanza che conserva i dipinti di Jackson Pollock e che sarà visibile fino al 2 maggio, è un collettivo che si fa chiamare MoMAR e che nel sito web ufficiale dichiara di voler “democratizzare gli spazi espositivi” sfruttando le possibilità offerte dalle tecnologie digitali. Per l’occasione, otto artisti hanno realizzato dei progetti in realtà aumentata, visualizzabili sul proprio smartphone tramite una app, che interagiscono in modi diversi con le opere di Pollock trasformandole in delle interfacce per l’accesso a informazioni e immagini di ogni genere. Come sottolineato nella presentazione ufficiale, l’azione non è stata in alcun modo autorizzata dal museo e vuole quindi configurarsi come un atto di riappropriazione di uno spazio pubblico dedicato all’arte, bypassando i cosiddetti gatekeeper, ossia chi decide cosa esporre e cosa no.
TROPPI PRECEDENTI ILLUSTRI
Il progetto, che è stato ampiamente pubblicizzato sui media come una grande novità grazie a una serie di articoli infarciti di termini come “guerrilla exhibition” e “hijacked museum”, è in realtà la fotocopia di un intervento pressoché identico svoltosi sempre al MoMA nel 2010, ben 8 anni fa, ideato da Sander Veenhof e Mark Skwarek come contributo al Conflux Festival e intitolato WeARinMoMA. Stesso museo, stessa identica idea: opere d’arte in realtà aumentata da fruire al MoMA usando il proprio smartphone. Anche qui, senza il beneplacito dell’istituzione coinvolta. Ma non si tratta dell’unico precedente, anche se è sicuramente il più somigliante. Basti pensare, solo per citare i progetti più noti, all’intervento sempre di Veenhof e Skwarek, stavolta insieme a Tamiko Thiel alla Biennale di Venezia del 2011 sotto la sigla Manifest.AR; all’Invisible Pavillion alla stessa Biennale, curato dagli italiani Simona Lodi e Les Liens Invisibles o all’omaggio parodia a Damien Hirst realizzato dalla Thiel alla Tate Modern nel 2012.
Un’idea, insomma, che ha colpito la stampa non specializzata con le sue dichiarazioni altisonanti sul web come mezzo di liberazione dalle gerarchie (con toni molto Anni Novanta), ma che non racconta niente di nuovo a chi negli ultimi dieci anni ha seguito le evoluzioni del rapporto tra arte e tecnologia. Se non per un dato un po’ deprimente, ossia la totale mancanza di memoria storica di tanti giovani artisti, peraltro in questo caso una memoria a brevissimo termine.
– Valentina Tanni
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