In loving memory of Mike Kelley
HangarBicocca ospita fino all'8 settembre la retrospettiva co-curata da Emi Fontana dedicata a uno degli ultimi titani dell'arte. Dieci installazioni, quasi tutte dei primi Anni Zero, per orientarsi nella complessa e stratificata mappa concettuale dell'artista di Detroit.
Gli ampi spazi dell’Hangar dove le dieci opere sembrano isole magnetiche illuminate in un mare di oscurità, tappe di un viaggio odissiaco, sono il primo elemento di novità rispetto all’horror vacui che ha caratterizzato le personali e le collettive (come le epocali Post-Human o The Uncanny) che hanno visto esporre e curare Mike Kelley (Wayne, 1954 – South Pasadena, 2012). Inoltre si tratta della prima retrospettiva post mortem, considerando che l’approvazione della grande mostra itinerante approdata ora dallo Stedelijk al Pompidou fu uno dei suoi ultimi atti.
Mike Kelley torna sempre negli stessi luoghi in una coazione a ripetere che è tipica del processo psicanalitico dell’individuazione e risoluzione dei traumi: su tutti il liceo che frequentò, intitolato a John Glenn, l’astronauta a cui dedica un memorial composto da frammenti, detriti, materiali di recupero raccolti lungo il fiume di Detroit, ricostruito insieme agli altri edifici scolastici frequentati in Educational Complex lasciando vacanti le parti che non sapeva ricordare, a suggerire si trattasse di scenari di traumi rimossi.
L’autobiografia e la radicazione local sono lo spunto di un discorso complesso che, padroneggiando ogni registro e ogni tecnica, dal disegno osceno al prospetto architettonico, da Lautremont a Porky’s, sviscera i temi dell’autorità e del sopruso, della marginalità del diverso e del darwinismo nella cultura americana. In Bridge Visitor i riti di iniziazione adolescenziali evolvono in una evocazione satanica. Pochi artisti – David Wojnarowicz, i Sonic Youth di Bad Moon Rising con cui Kelley collaborerà – sono altrettanto espliciti nell’individuare il substrato nero, ricco di roghi di streghe, occultismo e paganesimo che innerva l’infanzia e l’adolescenza degli Stati Uniti puritani emergente per suppurazione ogni anno a Halloween in un “rito di devianza socialmente accettato”.
A proposito, Woods Group proviene da Extracurricular Activity Projective Reconstruction, un progetto che parte dalle fotografie degli Yearbook (un altro luogo centrale dell’identità americana) straniate da apparizioni di freak e costumi demoniaci fino a suggerire, nell’opera in mostra, una fuga degli americani incongrui verso i boschi, il cuore arcano a un passo da grattacieli e college. Oppure immaginando da un innocente doppio ritratto, in A domestic scene, l’epilogo tragico e camp di una relazione omosessuale. L’installazione si compone di un set in tutto simile a una scena teatrale di una pièce di Tennessee Williams e di un apparecchio tv che racconta la storia attraverso inquadrature che ricordano Nodo alla gola e Il mago di Oz e accenti tragicomici come il feticismo per Sylvia Plath proiettato su un forno.
C’è la frase che dà il titolo alla mostra, “Eternity is a long time”, e ci sono tutti gli elementi tipici dell’arte di Kelley, dal primo Banana Man fino alla recente Profondeurs Vertes, aulica e classica, commissionata dal Louvre: la perversione intesa come capacità di stravolgere il senso e l’uso degli oggetti, fisici e culturali, e le aspettative (si veda la scala a pioli diventata proiettore in Light (Time) – Space Modulator) e un sense of humor sempre agrodolce e disarmato, autoironico piuttosto che sarcastico. Un’altra unicità dell’opera di Mike Kelley nell’arte contemporanea è l’assenza di cinismo. Anche per questo ci manca.
Alessandro Ronchi
Milano // fino all’8 settembre 2013
Eternity is a long time – Mike Kelley
a cura di Emi Fontana e Andrea Lissoni
Fondazione HangarBicocca
Via Chiese 2,
20126 Milano
www.hangarbicocca.org
[email protected]
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati