Joan Jonas. Antologica all’Hangar Bicocca, in attesa della Biennale
L’artista americana, recentemente convocata alla 56. Biennale di Venezia per rappresentare gli Stati Uniti, concede un esteso itinerario ricognitivo del proprio lavoro all’Hangar Bicocca di Milano. Un progetto che raccoglie una ventina di lavori, selezionati nell’arco di oltre un anno di ricerca da Andrea Lissoni. Che abbiamo intervistato.
L’omaggio a una precedentrice di una prolifica generazione di performance contemporanee, la prima, estesa prova istituzionale italiana di una sciamana della video-performance è pronta. Dal primo di ottobre, nel buio puro di Hangar Bicocca, venti opere – tra installazioni, performance e proiezioni – daranno vita a una fra le antologiche europee più estese mai realizzate nei confronti del percorso artistico e immaginifico di Joan Jonas (New York, 1936). Sotto il titolo di Light Time Tales, l’artista americana ripercorrerà temi fondativi del proprio itinerario simbolico; fin dagli Anni Sessanta, infatti, Joan Jonas indaga il tema dell’identità e le relazioni tra il corpo e i numerosi simulacri umani. Dopo l’intervista alla stessa Jonas pubblicata a maggio, oggi è il curatore Andrea Lissoni che ne rivela anteprime e retroscena.
Tra la ventina di opere esposte, quale quella cronologicamente più distante da noi e perché è stata scelta? Come guardare ai suoi primi lavori per dare una nuova lettura alla contemporaneità del suo lavoro?
La più antica è sicuramente Wind, del 1968, ma il lavoro che si misura con grande intensità con il fattore tempo è Mirage (1976/1994/2005). Questa è un’opera che si è aggiornata tre volte e che ha dovuto confrontarsi anche con una nuova versione, con una metamorfosi di se stessa, After Mirage (1976/2011) costituita subito dopo la sua omonima. Mirage nel 1976 era stata concepita per essere una performance attuata all’Anthology Film Archives, luogo epico del panorama culturale newyorkese in cui l’artista assisteva a proiezioni di cinema sperimentale, accanto a un pubblico composto di musicisti, danzatori, artisti e naturalmente cineasti. Successivamente nel 1994 alla sua personale presso lo Stedelijk Museum di Amsterdam Joan Jonas ripensa all’opera e la presenta come un’installazione utlizzando alcuni degli elementi impiegati nel 1976. Quest’ultima – che ha assunto la sua forma attuale nel 2005 – dopo essere stata esposta al MACBA di Barcellona e al MoMA, è oggi in HangarBicocca e testimonia l’attitudine di un’artista che riflette e ritorna senza sosta sul proprio lavoro.
In che modo un dispositivo come la Portapack ha modificato la profondità interattiva delle performance e, di riflesso, delle proiezioni di Joan Jonas?
In Mirage, ad esempio, la performance così come è stata attuata si mescola alla documentazione della messa in scena. Vengono sovrapposte immagini poetiche e poi manipolate creando una sorta di paesaggio mediale che si riflette nella portabilità delle immagini. Medesime configurazioni ed effetti di sovrapposizione che ha, ovviamente con maggiore nitidezza, la GoPro utilizzata per girare Beautiful Dog, il nuovo video presentato in occasione della mostra, all’interno del quale viene inserito il suo nuovo cane Ozu.
Quale significato assume in particolare Lines in the Sand (2002) in questo percorso?
L’opera avrà una posizione quasi centrale nel discorso tematico della mostra. Abbiamo voluto inserire e offrire grandi spunti di discussione attraverso opere come Reading Dante e come Volcano Saga. E anche Lines in the Sand avrà una voce fondamentale in questo senso, soprattutto per le questioni politiche che affronta. Joan Jonas, infatti, immagina che Elena di Troia non sia mai stata nella città dell’Asia Minore, rimanendo una sorta di fantasma, di pretesto di una guerra combattuta per rotte commerciali, più che su principi e valori. Mito che potrebbe sovrapporsi e confondersi con l’attualità. E anche in questo caso le immagini rievocate dall’artista americana saranno uno specchio politico di quel che, reiterando, continuiamo a compiere creando un clima alterato.
Come Joan Jonas utilizza il suono e quale ricerca compie in ambito musicale?
La traccia sonora nei lavori di Joan Jonas si distingue e si scompone, come un alfabeto, come una voce e come una musica, inserendosi in ogni racconto. La musica, come sottofondo, diventa una parte essenziale che riacquista la leggerezza dell’improvvisazione mantenendo una capacità compositiva in grado di coinvolgere diversi autori, proprio come in Reanimation, nella quale emerge la collaborazione con il compositore Jason Moran. La componente audio include, ovviamente, anche la voce narrante dell’artista stessa. In lavori come Merlo e come Songdelay il sonoro acquisisce una precisione percepibile solo in virtù di una calibrazione, di un’equivalenza tra l’artista e lo spettatore.
Il suono è così importante da obbligare chiunque a percepire la presenza di una sorta di “Tavola degli Elementi”, da seguire per arrivare a una fusione e a un nuovo composto narrativo. Noi facciamo il possibile per sintonizzare un’opera con l’altra fondendo ogni traccia come a creare uno strumento archetipico. Per merito di una dottoranda americana, siamo riusciti nell’incredibile compito di trascrivere ogni dialogo e ogni singola parola inserita all’interno dei lavori di Joan Jonas: grazie a una pubblicazione gratuita, a disposizione del pubblico, chiunque può seguire le immagini attraverso parole scritte nere su bianco.
Il cinema (sperimentale) si trasforma in magia oppure viceversa in Light Time Tales?
In verità Joan Jonas ha reinventato un paesaggio, scoprendo nuovi territori, nuove dimensioni. Sarebbe opportuno dire che grazie all’influsso del cinema sperimentale il suo rapporto con le immagini è già un po’ magico. Addirittura, in alcuni momenti, il suo immaginario si espande verso Fellini, come in Mirage e in Volcano Saga, verso il documentario o verso il Neorealismo.
Volcano Saga (1985/1994) e Reanimation (2010/2012/2013) si ispirano all’Islanda e alle sue leggende, che cosa rappresenta l’elemento del folklore nell’itinerario di Joan Jonas?
Lei lavora sull’origine del rito e sul tempo della nascita del mito. In questo senso Joan Jonas va a toccare storie e leggende primigenie, comportandosi come se lei stessa generasse un nuovo mito e lo ricombinasse seguendo il filo originario che lo ha creato. È sempre stata molto attenta anche a osservare come da un racconto o saga se ne innescasse un’altra e da quali elementi si generino epopee e folklore, proprio come succede in Lines in the Sand. Nelle sue opere la proposizione compositiva del racconto esplora la genesi del nostro immaginario.
A tuo modo di vedere, per quale motivo il lavoro di Joan Jonas non è mai stato approfondito da un’istituzione museale italiana?
In realtà lei ha già esposto al Castello di Rivoli e anche alla Galleria Civica di Trento, senza contare il corso presso la Fondazione Ratti, occasioni che hanno sicuramente influenzato una generazione di artisti come Luigi Presicce, Moira Ricci e Invernomuto, che da lei hanno tratto l’approccio a una ritualità scompaginata ma in grado di essere percepita dal profondo. Credo che uno dei primi ostacoli nel pianificare una mostra antologica sia prima di tutto linguistico e dunque di articolazione della narrazione della mostra stessa e dei fonemi che essa contiene. D’altronde, era forse necessario, per prestare attenzione a giovani artisti come Trisha Baga, Ryan Trecartin o Sung Hwan Kim, chiedersi quale fosse la loro possibile fonte di ispirazione, la loro matrice.
Stai per presentare un percorso che anticipa, e in qualche modo preannuncia, la presenza di Joan Jonas al Padiglione USA della 56. Biennale di Venezia. Quale l’augurio da formularle?
In verità non ne ha bisogno, è talmente piena di energia che sa benissimo come essere intensamente politica senza essere implicitamente tale. So che sarà così delicata e raffinata da sapere come porre al centro di quel mondo questioni globali importanti.
Potresti invece fornire un pensiero che accompagni qualunque visitatore di Light Time Tales?
Bisogna essere disponibili a farsi mettere in crisi e in difficoltà. Bisogna perdersi nel tempo e nei confini dell’opera, rimanendo sempre pronti a scambiare l’inizio con la fine delle cose, e viceversa. Il campo d’azione di Joan Jonas prevede lo sbandamento sulla superficie per un avvicinamento tridimensionale alla conoscenza, alla sua densità. In questa mostra bisogna tenersi pronti a un viaggio nel tempo, tra il passato e quel che ancora non si conosce, attraversando una sorta di ripetitiva, mai uguale, serie di time-capsule.
Ginevra Bria
Milano // fino al 1° febbraio 2015
Joan Jonas – Light Time Tales
a cura di Andrea Lissoni
HANGAR BICOCCA
Via Chiese 2
02 66111573
[email protected]
www.hangarbicocca.org
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