Lo streetwear, l’abbigliamento da strada, ha vissuto moltissime evoluzioni e contaminazioni fin dalle sue origini, probabilmente più di qualsiasi altra corrente stilistica. Virgil Abloh, fondatore del marchio Off-White e primo uomo afro-discendente a diventare direttore creativo per Louis Vuitton, è stato un grande protagonista del panorama stilistico dello streetwear. Poco prima della sua tragica scomparsa nel 2021, l’indiscutibile esperienza sull’argomento gli permise di sostenere che questo era un movimento giunto oramai al termine del suo percorso. Ma cerchiamo di comprendere le evoluzioni degli “abiti da strada” attraverso i periodi storici e le interpretazioni degli stilisti.
Le origini dello streetwear
Siamo tra gli Anni ’70 e ’80, nei sobborghi periferici del Bronx, di Harlem e del Queens. Prima di confluire nella moda, lo streetwear rappresentava la gente di strada, il loro modo di essere e di affrontare le disuguaglianze; rappresentava anche il riflesso di un sistema estremamente corrotto e un incessante desiderio di riscatto. La black culture, insieme alla musica hip-hop, sono le prime determinanti di questa corrente stilistica. Boombox e coreografie di break-dance venivano improvvisate per le strade, e lo sportswear, abbigliamento comodo per effettuare tali movimenti, diventa strumento identitario delle culture popolari. In quegli anni, era facile vedere tute Adidas e cappellini da baseball New Era per le strade; e grazie a gruppi musicali rap, come i Run DMC, si aggiungono al look collane d’oro massiccio. Nike intuisce da subito il dominio che le sneakers avrebbero esercitato sul mercato calzaturiero, così anticipa i tempi grazie a un accordo con Michael Jordan in veste di testimonial. Poi emergono le taglie d’abbigliamento oversize, elemento distintivo dello streetwear, e le correnti musicali influenzano i vestiti tipicamente da strada in base al genere: la disco music, il punk e il reggae sono noti per le loro estetiche contrastanti, ma al tempo avevano come obiettivo comune quello di rivendicare lo spazio urbano.
L’influenza della musica nell’evoluzione dello streetwear
Sebbene non sia facile identificare un fondatore dello streetwear, sono innegabili le radici americane che partono anche da Los Angeles. Qui i giovani che praticano surf e skate riescono a tradurre la libertà e la spensieratezza tipiche della California attraverso un prodotto, come ha fatto negli Anni Ottanta il californiano Stüssy con il suo brand omonimo che proponeva semplici T-shirt e tavole da surf con apposito logo. È a lui che si deve l’International Stussy Tribe, una vera e propria famiglia di stile composta dai suoi amici promotori del brand, che diffusero nel mondo i codici dello streetwear. Il DJ Hiroshi Fujiwara, poco dopo essere entrato in contatto con Stüssy, fonda in Giappone il marchio Goodenough, spinto dalle prime influenze occidentali che fanno nascere anche lì un movimento hip-hop e punk chiamato Urahara, come il quartiere in cui si affermano. A seguire, Tomoaki Nagao, assistente di Fujiwara, crea il famosissimo brand ‘A Bathing Ape’ e James Jebba apre l’altrettanto celebre Supreme nel 1994. Il grande successo di questo poggia le basi su due pilastri principali: il fattore hype, generato dalla legge economica di scarsità del prodotto, e il design degli store. Il primo era dato dalle produzioni ‘drop’, immesse nel mercato con cadenza settimanale e in piccole quantità così da aumentare il desiderio d’acquisto; il secondo invece era studiato rigorosamente per i suoi clienti: spazi ampi in cui poter entrare con il proprio skate. Supreme, inoltre, diventa uno dei primi a determinare il collegamento tra lo streetwear e il mercato del lusso, ponendo i suoi prodotti su una fascia di prezzo più alta rispetto alla media.
L’evoluzione dello streetwear: dagli anni Duemila al mondo del lusso
Già nel 1995 Raf Simons, attuale direttore co-creativo presso Prada, provoca il mondo del lusso mescolando streetwear e sartorialità nel lancio del suo brand omonimo. Viene seguito a ruota da numerosissime figure di rilievo intenzionate ad unire l’animo luxury di un vestito a quello underground – Riccardo Tisci è una tra queste, poiché mette subito in risalto il suo interesse per lo streetwear high-end lavorando prima per Givenchy e poi per Burberry. Esplode presto anche il fenomeno Yeezy di Kanye West, la cui intenzione era quella di proporre al pubblico linee elaborate grazie all’utilizzo di materiali pregiati quanto accessibili. Lo stesso approccio fu portato avanti da Virgil Abloh, grande amico di Kanye e pioniere dello streetwear, diventato direttore artistico della linea uomo di Louis Vuitton dal 2017 fino alla sua morte prematura nel 2021. La storia della maison francese era ben lontana dalle pratiche urban, ma questo non rappresentò per lui un ostacolo perché l’inevitabile transizione è avvenuta sia per il desiderio del brand di allargare il bacino di potenziali clienti, rivolgendosi ai più giovani, sia per sfruttare il fenomeno come fonte di arricchimento; motivo per cui sono nate collaborazioni come Adidas x Gucci o Louis Vuitton x Supreme. Fatto sta che i veri fondatori dello streetwear non creavano con lo scopo di guadagnare, ma con l’intento di trasmettere un messaggio; per la necessità di colmare un vuoto sociale e per la passione che li motivava nel profondo.
Presente e futuro dello streetwear secondo lo stilista Michele Lamanna
“Lo streetwear è uno stile di vita, fa parte di una cultura molto più ampia dell’abbigliamento. Oggi non c’è più uno stile dominante, ma tante subculture che creano delle nuove alchimie. Può dare l’idea di essere uno stile morto soltanto perché non costituisce più una novità”. Così Michele Lamanna, stilista pugliese fondatore del brand Isabella1985, dal tocco minimal e pregiato, definisce la sua visione dello streetwear nel panorama odierno. Nel corso degli anni, ha smesso di incarnare un messaggio sociale, e dalla rappresentazione di una particolare nicchia è finito per appartenere alla cultura collettiva, sino a perdere di vista quelli che erano i suoi tratti distintivi e la sua capacità di differenziarsi attraverso l’anticonformismo. Se prima lo streetwear è stato il fulcro d’azione delle case di moda di lusso, che lo hanno sfruttato per arricchirsi finché le sue continue rivisitazioni generavano curiosità nel pubblico, oggi “non è più il motore dell’economia della moda come lo è stato nello scorso decennio”. Tutto ciò ha inevitabilmente portato alla saturazione del mercato, quindi alla stabilizzazione del livello d’interesse verso lo streetwear. Sebbene “a livello commerciale l’identità di un brand debba mantenersi fortemente unica, deve anche saper trascendere nell’inclusività della società attuale”, come afferma Michele.La comunicazione è lo strumento più prezioso per confrontarsi con i consumatori e distinguersi – a tal proposito, Nike e Adidas si fanno pionieri di strategie comunicative che li vedono coinvolti nel mondo del Gaming e dell’Intelligenza artificiale, “dando così slancio ad una comunicazione del tutto nuova, e ad una moda rappresentata non solo sul piano fisico ma digitale. Lo streetwear è anche un prodotto più semplice da tradurre in una realtà virtuale”. E se il panorama attuale sembra privo di novità, questo stile esiste in silenzio per le strade. Michele infatti crede che il suo futuro possa ancora prospettare qualcosa di eccitante e coinvolgente, come dichiara: “Sono molto curioso di assistere a ciò che può nascere dal desiderio dei fashion designer emergenti di sperimentare cose nuove per uscire da questa crisi. Senza il sacrificio e la sofferenza di sentirsi fermi davanti alla non-evoluzione dello streetwear, non è possibile mettere in discussione ciò che abbiamo adesso e gli obiettivi che potremmo fissare. È proprio il concetto che uso nel mio brand”. Lo streetwear quindi non è morto, piuttosto non è più quello originario dal momento in cui ha smesso di essere un fenomeno di nicchia. I suoi messaggi adesso sono differenti, per necessità commerciali quanto sociali. È, però, dovere sia degli stilisti sia dei consumatori capirne le evoluzioni.
Giulia Bracaloni
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