Imparare dall’acqua. Intervista all’architetto Alfonso Femia
I recenti progetti dello studio di Alfonso Femia a Trieste, Porto Marghera, Reggio Calabria, Barcellona, La Spezia e Ravenna, nonché il “caso celebre” dei Docks di Marsiglia, hanno in comune l’acqua. Un elemento essenziale, da anni al centro della ricerca dell’architetto
Carente, eccessiva, violenta, fondamentale: l’acqua, presente o assente nei territori, ha da sempre influenzato il modo in cui le specie viventi si sono adattate ai luoghi. E continuerà a farlo, anche nel sinistro avvenire verso cui sembriamo inesorabilmente indirizzarci, ovvero quello in cui fenomeni come le esondazioni avranno perso il ritmo di episodi puntuali, rari, intervallati a fasi di normalità, variamente gestibili pur nella loro irruenza. Esperienze come il recente workshop di architettura Waves, promosso dall’Università Iuav di Venezia, documentano che il campo d’azione delle generazioni emergenti di progettisti è destinato a una significativa evoluzione, forse imminente. Perché non più procrastinabile è la necessità di affrontare questioni come l’innalzamento del livello del mare – un’urgenza già condivisa da numerose città costiere del pianeta, da Manila e Miami –, lavorando sui sistemi di difesa territoriale, sulle soluzioni di adattamento e sulla protezione degli insediamenti. Tra i primi architetti in Italia a scegliere di rendere l’acqua parte integrante della propria attività, sia di ricerca che progettuale, c’è Alfonso Femia. Dal 2017 alla guida dello studio Atelier(s) Alfonso Femia AF517, con sede a Genova, Milano e Parigi, da almeno un quinquennio con il suo team lavora per trasferire da quello che considera essere l’attuale piano di invisibilità un tema, l’acqua appunto, da lui stesso definito “la sentinella vera del cambiamento climatico”.
Architetture d’acqua
Fatte salve alcune accezioni – tra le quali ci sentiamo di inserire una manciata di partecipazioni nazionali alla Biennale di Architettura in corso a Venezia, come il Padiglione Portogallo con la ricerca collettiva Future Fertile –, secondo Femia la comunità architettonica internazionale sembra continuare a essere più concentrata sulle strategie di efficienza energetica, promosse per ridurre le emissioni clima alteranti, anziché sull’acqua. In questo scenario pressoché immobile, a partire dal 2018 Femia ha posto la relazione tra tale risorsa e l’architettura al centro della sua azione, dando il via al progetto Mediterranei invisibili. Un interesse che oggi si riflette sia nella pratica progettuale – recenti sono i progetti, tutti legati a concorsi, per i waterfront di Trieste, Porto Marghera, Reggio Calabria, Barcellona, e per i terminal della Spezia e Ravenna –, sia in iniziative di respiro culturale. Dalla direzione artistica della III edizione della Biennale di Architettura di Pisa (2019), dall’eloquente titolo Tempodacqua, al successivo focus su cambiamento climatico, acqua e architettura nel Padiglione Italia curato da Alessandro Melis; dalla Biennale dello Stretto (2022), svoltasi tra Reggio Calabria e Messina e focalizzata sul Mediterraneo europeo, africano e medio-orientale, fino alla recente serie di pubblicazioni cartacee. Incluso il libro La Méditerranée encore à venir. Learning from water, scritto dallo stesso Femia, Paul Ardenne e Jean-Philippe Hugron per Ante Prima – AAM Édition e presentato alla fine di giugno al Centro Pompidou di Parigi. Ma perché, a un certo punto della sua carriera, un architetto inizia a occuparsi di acqua?
Intervista all’architetto Alfonso Femia
Associa da anni il tema dell’acqua alla condizione di invisibilità. Nonostante la drammaticità della cronaca, perché persiste un ridotto interesse verso tale questione?
Il tema dell’acqua continua a essere invisibile, pur tenendone insieme tanti altri: se ne parla esclusivamente nelle situazioni di scarsità, quando c’è siccità o in presenza di eventi estremi. Lo si affronta per episodi, direi “piroettando”. Non esiste una visione strategica, capillare, politica, nel senso più proprio del termine. Eppure si tratta della sentinella vera del cambiamento climatico: è il suo aspetto più evidente sul territorio. Ciononostante fin qui non c’è mai stato un cambiamento vero dell’agenda politica. È tempo di riconoscere, con coraggio, che parti del territorio vanno ridate all’acqua, più che fare resistenza immaginando che l’uomo possa controllare tutto.
Significa che dovremmo “arrenderci”?
Quello che dobbiamo fare è cambiare lo sguardo con cui osserviamo il territorio e le sue problematiche. Dobbiamo comprenderne gli aspetti di variabilità e fragilità e capire che una certa condizione di equilibrio non sarà più duratura come una volta. Ma per farlo serve una nuova progettualità trasversale. L’architettura si deve fare carico di questo processo, ma l’approccio deve essere trasversale. Occorrono i contributi di più professionisti. Faccio un esempio: a Parigi, ragioniamo della città con urbanisti, ricercatori e specialisti guardando a ciò che funziona (o non funziona) nelle città del Nord Africa, perché si presuppone che quel tipo clima arriverà fino in Francia. Ecco allora che questa è la grande occasione per tornare ad adottare, tutti insieme, una logica condivisa.
Concentriamoci su casi concreti. Con il Parco Lineare di Trieste, il suo studio propone un ripensamento dell’idea stessa di waterfront: in che modo, provate a sganciare la linea di costa da un’accezione solo tecnica o funzionale, per aprirla a nuovi usi?
A Trieste la volontà è riqualificare l’area del Porto Vecchio, che è enorme, complessa. Richiederà tempo: conta cinque moli, più di tre chilometri di banchine e 23 tra magazzini e hangar. Partendo dagli spazi oggi vuoti, proponiamo che sia la città a riconquistarli, riqualificandoli per usi collettivi affinché inizino a essere attraversati, vissuti. Siamo sicuri che questo automaticamente possa cambiare la percezione di quel contesto e di quei manufatti. Così facendo più facilmente si potrà andare a recuperarli, discutendo via via qual è la funzione migliore da attribuirgli. Spesso invece si lavora al contrario: si cerca ostinatamente di capire qual è l’interlocutore a cui vendere un’area e si lascia il progetto dello spazio aperto e pubblico come conseguenza, alla fine di tutto.
Invece a Trieste prima ci potrebbe essere il parco…
Uno dei primi interventi è la realizzazione di un parco lineare di oltre 3 chilometri, capace di connettere l’area a Piazza Unità d’Italia e al resto del territorio. Lo consideriamo il “luogo lento” e intergenerazionale della futura Trieste. Alla base del progetto del parco c’è anche l’idea di riportare porzioni di paesaggio carsico dentro questa striscia continua, così che diventi anche un’occasione di “educazione al paesaggio”. Non solo: lì, per la prima volta, proponiamo la trasformazione delle esigenze di manutenzione in opportunità di attivazione circolare del paesaggio, oltre che di sperimentazione sul verde. E il tutto direttamente dentro alla città.
Ovvero?
Prevediamo ad esempio un edificio da destinare alla gestione del verde, una centrale di compostaggio e una serie di alberature che quando raggiungeranno i 4 o 5 metri di altezza potranno essere spostate in un altro luogo di Trieste. Una sorta di vivaio produttivo, così che la manutenzione possa diventare un’occasione e il parco non sia solo un luogo con un “valore estetico” o ecologico, ma possa rispondere a un’idea diversa, di ricerca e innovazione. Sarà una linea di tre chilometri che proverà anche a porre molte domande. E l’acqua farà da connessione, apparendo e scomparendo.
Architettura e cambiamento climatico
Nei giorni della COP27, lo studio di architettura MVRDV ha reso noto il “Sea Level Rise Catalogue”, uno strumento messo a punto per fronteggiare l’innalzamento del livello del mare a Vancouver. A suo avviso quali strategie, linee guida o metodi andrebbero attuati per “lavorare con l’acqua” anziché contro di essa, agendo subito nelle linee di costa?
Intanto nei territori in cui operiamo stiamo provando a scardinare una logica di progetto che spesso, ancora oggi, è divisiva. Il tema vero è rovesciare il cannocchiale. Intendo dire che oggi la città oggi si ferma al limite del porto: quest’ultimo viene considerato una sorta di territorio a sé stante. L’operazione che stiamo facendo su tutti i progetti che stiamo provando ad approcciare, non solo in Italia, è quella di contaminare i luoghi, per fare in modo che la città comincino ad avere una visione molto più ampia di sé stesse. E questo è il dato fondamentale, perché se si lavora per compartimenti stagni è impossibile pensare di poter affrontare dei temi complessi, che nella loro natura non hanno confini. Trasformare i bordi dei porti in porzioni di parchi pubblici li rende capaci di assorbire o trattenere l’acqua. A Reggio Calabria abbiamo proposto un parco territoriale urbano di quasi 40 km; a Marghera la suggestione è stata quella di andare a riqualificare un’ampia porzione con un grande parco. Un altro aspetto sul quale stiamo lavorando, ad esempio a Marsiglia e sulla costa spagnola, è spingere la committenza a immaginare l’uso dell’acqua di mare come fonte di energia rinnovabile.
Citava Reggio Calabria. Quali sono le prospettive per la Biennale dello Stretto, in una fase storica in cui lo stretto è di nuovo sotto i riflettori con il rilancio del progetto infrastrutturale che porta il suo nome?
Inizio con il dire che, rispetto al ponte, non sono né per il sì, né per il no. Sarebbe molto importante ragionare in maniera alta, vera, approfondita sul tema delle infrastrutture in generale, in Italia. Qual è la scelta giusta per un Paese che perde abitanti? Come ci sposteremo fra trenta, quarant’anni? Siamo in un’area densa di porti, che già sono utilizzati per spostare le merci: prima ancora di dire sì o no, servirebbe una ricerca di respiro internazionale, ad esempio guardando alla progettualità sull’acqua come sta facendo il Canada. Quanto alla Biennale: la sfida è replicarla del 2024. E anche immaginare che si possa costituire una fondazione pubblica, un’istituzione culturale capace di dare dei contributi importanti in quel territorio. Noi intendiamo proseguire nel segno dell’acqua; vorremmo cominciare a spostare il focus mettendo a confronto le città di Crotone e Siracusa, che hanno in comune tanti temi.
Chiudiamo con Roma: come procede il progetto del Poligrafico?
Dopo circa un anno e mezzo, con la pandemia e il cambio dell’amministratore delegato, il progetto sta seguendo una buona roadmap. Il cantiere è partito e l’operazione è prioritaria per il Poligrafico, che ha rivisto anche le sue strategie complessive sulla parte immobiliare, lasciando il nostro come progetto significativo soprattutto per il ruolo urbano che svolgerà nella città di Roma. Abbiamo infatti immaginato che il recupero dell’edificio possa contribuire alla riqualificazione di un quartiere che sempre di più, dal mio punto di vista, comincia a manifestare segnali di interesse, visto anche l’intervento in Piazza dei Cinquecento. È un progetto fortemente condiviso con la Soprintendenza, essendo un immobile attenzionato. E – forse questo rende bene lo stato dell’architettura in Italia – è anche uno dei pochi progetti di restauro monumentale significativo in corso nella Capitale dopo anni.
Valentina Silvestrini
https://www.atelierfemia.com/it/
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