Intervista a Carmela De Falco. L’artista dell’immaginazione e della quotidianità
Classe 1994, napoletana. Le sue opere non trattano i grandi temi del presente, dal climate change alle crisi contemporanee, ma affrontano le microstorie della quotidianità. L’intervista
Non dev’essere facile per un artista, oggi, fare i conti con un contesto storico che sembra assecondare atteggiamenti di sfiducia e rassegnazione. Emergenza climatica, conflitti tra Paesi, crisi delle democrazie occidentali, un sistema economico che non appare in grado di offrire stabilità: sono alcuni dei grandi temi che hanno contribuito a generare un clima diffuso di decadenza e collasso. Sembra impossibile, soprattutto se si è artisti emergenti, scampare a questa cappa che, in certi casi, inibisce la capacità di immaginare, di avere una visione che vada oltre la riproposizione – talvolta didascalica – degli stessi problemi che affliggono l’umanità. Lontana da qualsiasi postura distaccata o superficialmente ottimista, Carmela De Falco propone un immaginario che prende le distanze dall’atmosfera di “fine mondo” che si respira in molte opere di suoi coetanei. Le sue opere, pervase da una vitalità poetica, manifestano un’attenzione formale solida e tutt’altro che esibita, fatta di tensioni sottili, presenze impalpabili eppure incisive. L’interesse per la quotidianità, riletta attraverso gesti e interventi apparentemente minimi, è al centro della pratica dell’artista: gli automatismi e i tic che accompagnano il nostro vivere sono messi sotto una lente che ne amplifica il potenziale espressivo; oggetti che maneggiamo quasi con noncuranza (fili di nylon, fermaporte, monete di piccolo taglio…) vengono trasfigurati in monumenti interstiziali e, al tempo stesso, magnetici. Nelle opere di Carmela De Falco, spostamenti millimetrici generano tensioni in grado di far vibrare lo spazio in cui l’opera si inserisce.
Intervista a Carmela De Falco
Le tue opere partono spesso da elementi di formato ridotto, quasi impercettibili: è una scelta dettata da contingenze o si tratta di una precisa dichiarazione poetica?
La quotidianità è fatta di elementi che spesso tendiamo a dare per scontati: gesti, parole, oggetti, luoghi, persone. A me interessa osservare ciò che è trascurabile, ciò a cui normalmente non viene data importanza, qualcosa che assorbiamo inconsciamente e che abbiamo tacitamente accettato. Mi piace pensare che le cose minuscole e quelle enormi abbiano un legame, che un gesto nervoso e breve – come nella performance Gesture Repetition – possa creare un linguaggio nuovo, non più legato all’efficienza dei corpi. In alcuni casi cerco di spingere l’osservatore ad avere una relazione diversa con lo spazio e il tempo, più lenta, oculata, come nel caso di Pop-corn and one corn in cui, tra migliaia di pop-corn, esiste e resiste un chicco di mais non scoppiato; o, ancora, nell’opera Una linea quasi invisibile divide lo spazio, in cui un filo di nylon, passando da una parete all’altra della stanza, sta silenziosamente alterando la fisicità di quel luogo.
Utilizzi linguaggi differenti – installazione, performance, sonoro – per esplorare il potenziale del quotidiano, ma ho l’impressione che questa sia solo una parte dei tuoi interessi. Trovo che le tue opere abbiano a che fare, per esempio, con il passaggio del tempo e con la capacità di resistere a un destino apparentemente incontrovertibile.
Credo che la società in cui viviamo ci abbia abituati a uno stile di vita contratto: non sono più solo le cose a essere ridotte a merci, ma anche il tempo, lo spazio e le relazioni. Una merce non può essere logorata, deve essere consumata in fretta e sostituita. Io, al contrario, preferisco pensare di “abitare” ciò con cui entro in contatto. Abitare un luogo, un tempo, un oggetto, una parola, significa per me instaurare una relazione lenta con essi, che li logora, ma senza disfarsene. Per esempio in clock n.1, in cui un orologio dal vetro opaco, che lascia intravedere un leggero spostamento delle lancette, diventa un invito a ripensare i propri ritmi e a non legarli a un fare “performante”. Per quanto abbia coscienza delle storture del mondo, cerco sempre di avere una visione propositiva, di spostare i punti di vista, di ribaltare ciò che appare un destino ostile. Quest’attitudine è presente in Testa o croce, in cui ho ripiegato una moneta su se stessa, quasi a piegare una sorte affidata alla casualità del lancio; così come nella già citata Pop-corn and one corn, dove il chicco di mais non scoppiato può diventare un’immagine di possibilità e resistenza.
C’è qualcosa che ti spaventa nel tuo percorso da artista?
Essere un’artista, oggi, significa avere a che fare con la precarietà e con l’idea di dover fare almeno un doppio lavoro per tirare avanti. Questa realtà, soprattutto in Italia, può essere molto frustrante. Spesso trovo triste il fatto di avere tanti progetti non realizzati, perché necessitano di un sostegno economico che da sola non posso sostenere. Ma è anche vero che, quando si hanno poche risorse, si attivano altre energie che, a volte, possono portare a dei risultati inaspettati.
La collaborazione tra artisti
Ti riferisci al fatto di condividere uno studio con altri artisti? O ad altre forme di collaborazione?
In generale, mi riferisco di più a un’attitudine a trasformare “ciò che manca” in altre possibilità di esistenza. Per esempio, due anni fa ho vissuto in una stanza senza finestre, minuscola. In quel periodo tendevo a uscire di più per camminare, pensare e prendere un po’ d’aria. Durante le varie passeggiate è nata l’idea dell’opera Cartografia delle voci, una rilettura emotiva dello spazio urbano che si è poi declinata in una mappatura/sceneggiatura e in una performance sonora. Naturalmente, anche il fatto di condividere lo studio con altri artisti (Lucas Memmola, Gabriella Siciliano e, fino a poco tempo fa, Clarissa Baldassarri) può generare degli scambi interessanti: avere un luogo dove potersi incontrare e stare insieme è qualcosa di nutriente e stimolante.
Tornando alla tua pratica, hai delle insicurezze legate a quel che fai?
Lavoro spesso attraverso interventi minimi: per questo, a volte, mi preoccupa che alcune delle mie opere non siano immediatamente “accattivanti”, ma che abbiano bisogno di maggiore tempo e attenzione per essere comprese. Paradossalmente, credo che la forza di alcuni miei interventi risieda proprio in questa ambiguità. A volte temo anche il mio stesso approccio all’arte: mi accorgo di come il mio umore cambi se un giorno, presa da altri impegni, non sono riuscita a pensare e lavorare su un’opera.
Il tuo prossimo progetto?
Mi affascina l’idea dell’“uscire fuori di sé”, intesa come momento in cui si sposta l’attenzione dall’Io all’Altro, sia da un punto di vista spaziale che identitario; credo che, oggi, molti aspetti della nostra vita stiano subendo dei processi di “decorporeizzazione”. A tal proposito, sto pensando molto all’utilizzo dello sguardo, della voce e del corpo, e come questi ultimi siano elementi necessari alla comunicazione intersoggettiva: da qui dovrebbero nascere una performance sonora con due cantanti, un video e alcune sculture. Inoltre, da un paio di anni ho ripreso a scrivere poesie: ritagliarmi uno spazio di pensiero su un foglio vuoto per me è un momento molto prezioso.
Saverio Verini
BIO
Carmela De Falco è nata nel 1994 a Napoli, dove vive. Dopo essersi formata all’Accademia di Belle Arti di Napoli, frequenta l’ENSA – Dijon (2016) e l’Akademie der Bildenden Künste München (2017). Nel 2021 vince una borsa postlaurea e trascorre un periodo a Parigi all’EnsAD – École nationale supérieure des Arts Décoratifs. Le recenti mostre personali includono: Abitare il tempo, Latte project, Faenza (2022); Contenere il tempo, Exit Strategy, progetto speciale per ArtDays Campania, Napoli (2022); It’s funny to play alone, LO.FT, Lecce (2020). Tra le recenti mostre collettive: Premio Francesco Fabbri, Pieve di Soligo (2021); There is no time to enjoy the Sun, Fondazione Morra Greco, Napoli (2021); Exit Strategy, Cinema Plaza, Napoli (2021); In sei atti, Casa Morra, Napoli (2019); Fleeting, Akademie der Bildenden Künste München (2018);68° Premio G.B. Salvi, Sassoferrato (2018).Nel 2019 prende parte alla residenza artistica “Sapere i Luoghi” tra la Fondazione Lac o Le Mon e Casa Morra, ideata da Cesare Pietroiusti. Nel 2023 è in residenza presso Hangar-Lisbona, finanziato da Culture Moves Europe e dal Goethe Institut. Le sue opere si trovano in collezioni pubbliche e private, tra cui la Fondazione Morra Greco (Napoli) e la Fondazione Cassa di Risparmio di Cento (Ferrara).
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #71
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