La visione autarchica di Vittorio Sgarbi contro i direttori stranieri nei musei
Alla National Gallery di Londra il direttore è di origine italiana, la piramide del Louvre è opera di un architetto sino-americano. Perché invece secondo il Sottosegretario i direttori dei nostri musei dovrebbero essere campioni di italianità?
“Adesso se ne vanno. Siamo arrivati noi e se ne vanno loro. Perché devo mettere un direttore straniero agli Uffizi? Si è mai visto uno straniero al Louvre? […] I simboli sono i simboli. Non lasceranno traccia”, ha affermato un quanto mai autarchico Vittorio Sgarbi, che condivide con Lucia Bergonzoni e Gianmarco Mazzi la carica (prettamente consultiva, sia ben chiaro) di Sottosegretario ai Beni Culturali.
La carica di Vittorio Sgarbi al Ministero
Già, perché va rilevato che Sgarbi ha qui espresso un suo parere personale: il ruolo del Sottosegretario, a livello amministrativo, è infatti quello di coadiuvare il ministro e aiutarlo nei compiti che gli siano stati espressamente delegati dal ministro stesso, e in questo caso non sono giunte notizie in merito ad una delega da parte del ministro Gennaro Sangiuliano in merito al settore museale. In altri termini, non ha alcun “potere di firma”.
In secondo luogo, le parole di Sgarbi fanno riflettere per via dell’infelice paragone scelto. Oltre alla greve protervia dimostrata nel voler suddividere l’arte in segmenti “nazionali” a compartimenti stagni, occorrerebbe ricordare che in Gran Bretagna il direttore della National Gallery di Londra è l’eccellente Gabriele Maria Finaldi, di origine, di cittadinanza e di cultura (anche) italiana. Questo in un Paese che ha votato la Brexit.
Il concetto di italianità durante il fascismo
D’altra parte, durante l’epoca dell’oscurantista e fanatico Regime fascista, italianissimi sovrintendenti come Pietro Tricarico, ministri come Francesco Ercole e mascelluti capi di governo, come Benito Mussolini, si impegnarono in prima persona per la dispersione all’estero di parte del patrimonio italiano, come nel caso della strepitosa Collezione Barberini, che oggi fa bella mostra di sé in musei come il Thyssen-Bornemisza di Madrid, il Louvre di Parigi o il Metropolitan Museum di New York. Dunque, quale “italianità” stiamo difendendo?
Ma lasciamo parlare i protagonisti: ecco come Mussolini si espresse a riguardo della collezione Barberini, per sua volontà lasciata emigrare (o trasmigrare?) impunemente all’estero: “non capisco questo riunire roba che nessuno va a vedere: anche se va all’estero resta italiana”. Siano le sue dolorose parole monito e promemoria: di questo stiamo parlando quando si parla di fascismo, non di altro.
La rivoluzione nella museologia del Louvre
In terza istanza, è curioso che Sgarbi abbia utilizzato come esempio per i suoi pensieri di fine estate il Louvre, che tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta osò creare scandalo (e dibattito) inserendo una piramide di vetro e acciaio nel suo cortile principale, e persino scale mobili per rendere più fruibile da parte di tutti il museo. Anche se oggi l’intervento è ormai stato pienamente digerito, all’epoca l’iniziativa fece scalpore. Una vera e propria “Rivoluzione francese” della museologia.
L’architetto dell’intervento, Ieoh Ming Pei, d’altra parte, non era francese. E non era neppure europeo: vantava infatti origini cinesi e una cittadinanza americana. Eppure, osò inserire una piramide egizia postmoderna in mezzo al Louvre. D’altra parte, si sa, la museologia è una scienza sociale, e la museologia deve evolvere seguendo l’evoluzione della sensibilità della società. Pena lo slegamento tra museo e società che si era verificato nei decenni precedenti in Italia.
Sgarbi contro la Loggia di Isozaki
Grazie all’europeizzazione e all’internazionalizzazione della dirigenza museale italiana, che riflette l’andamento fisiologico della società, questa frattura tra museo e cittadinanza, drammatica fino a pochi anni fa, si era andata gradualmente ricomponendo, e i risultati in termini di visite non si sono fatti attendere.
Talvolta, come nel caso della difesa dell’intervento dei BBPR per la Pietà Rondanini di Michelangelo al Castello Sforzesco di Milano, Sgarbi (che, va detto, non è un museologo) ha invece difeso un principio anacronistico e antimoderno: quello dell’Auctoritas, basato su un ipse dixit che risulta impermeabile alle mutate esigenze di fruizione culturale della società.
D’altra parte, il Louvre tanto osannato da Sgarbi come esempio di autarchia è lo stesso museo che ha saputo rinnovarsi e dialogare con l’architettura contemporanea. Risulta pertanto piuttosto curioso che lo stesso Sgarbi si sia così fortemente opposto ad un intervento come quello della cosiddetta Loggia di Arata Isozaki, citazione contemporanea della celeberrima Loggia della Signoria davanti a Palazzo Vecchio, dotando il sistema museale di una gradevole simmetria tra ingresso e uscita.
Al Louvre non avrebbero avuto alcun dubbio sull’opportunità dell’intervento come quello di Isozaki agli Uffizi.
Perché pertanto “due pesi e due misure”? “Simul stabunt, simul cadent”: perché fare cherry picking e utilizzare l’esempio del Louvre solo quando conviene e ignorarne l’audacia quando va contro alle nostre convinzioni?
In Italia, in molti, in troppi, non hanno ancora concepito la differenza tra collezione, in cui prevale la figura del collezionista, e museo, in cui invece prevale l’interesse del pubblico, della divulgazione e della diffusione enciclopedica, libera e democratica del patrimonio artistico. La rivoluzionarietà del concetto di museo sta proprio in questo: nel valorizzare l’opera in quanto tale, e metterla in un contesto leggibile e intellegibile da parte della società. Questa scienza si chiama museologia.
I direttori di esperienza internazionale hanno ben chiara questa differenza tra collezione ed è pertanto fondamentale – nell’interesse del patrimonio artistico e culturale del Paese – poter continuare a giovarsi della loro sensibilità contemporanea.
I musei secondo Daniele Jalla
Daniele Jalla, museologo autore del volume “Il museo contemporaneo. Introduzione al nuovo sistema museale italiano” (Utet, 2005), nel corso di un’intervista si esprimeva in questi termini sulla differenza di approccio all’istituzione museale in Italia rispetto alle “best practices” internazionali:
“Un […] elemento di differenza è la funzione «educativa», che nei musei di stampo anglosassone è rimasta centrale e quindi chiaramente impressa nelle politiche. Questo perché il museo è riconosciuto come «istituto», cosa che in Italia ancora non avviene. Se il museo è una «collezione» (come è stato a lungo considerato dalla normativa italiana), allora le funzioni educative finiscono per essere degli elementi di corredo, non sono ciò che dà senso e significato alla missione del museo. Oggi sembra che in Italia esista la possibilità di attribuire nuovamente centralità alla funzione educativa, peraltro già chiara nel museo ottocentesco. Lo schema è molto semplificabile: dobbiamo recuperare identità da un punto di vista soggettivo come enti, dobbiamo formare una nuova generazione di gestori di questi istituti, con l’obiettivo di rendere accessibile il patrimonio al pubblico”.
Una proposta a Vittorio Sgarbi
E in questo i direttori di esperienza internazionale possono essere dei maestri, contribuendo a sprovincializzare un diffuso (ma non maggioritario) atteggiamento che nel nostro Paese ancora si appoggia all’Auctoritas e all’Ipse dixit pre-illuminista. Puro Ancien Régime, direbbe qualcuno. Concludiamo con una proposta: Vittorio Sgarbi già in passato si era interessato della vicenda del Castello di Sammezzano a Reggello, vicino a Firenze: un vero e proprio capolavoro dell’eclettismo neomoresco di fine Ottocento, un caso quasi unico in Italia e rarissimo in Europa. In qualità di Sottosegretario ai Beni Culturali potrebbe -questo sì- far presente al ministro Sangiuliano il lamentevole stato di abbandono in cui si trova il bene.
L’acquisto del Castello di Sammezzano e il restauro da parte dello stato e un suo rilancio (ipoteticamente anche come sede-satellite nell’ottica dell’iniziativa degli Uffizi Diffusi) sarebbe un intervento di ben altra levatura rispetto ai queruli strali rivolti verso i direttori stranieri, qualunque cosa questo termine possa mai significare nel 2022.
Thomas Villa
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