Con l’avvio della fashion week di New York, il prossimo 7 settembre si inaugura il consueto ciclo di presentazioni dedicate alle collezioni donna. Da qualche giorno si è messa in moto la potente macchina comunicativa che accompagna queste manifestazioni, ma per comprendere davvero che cosa sta per succedere sulle passerelle, la punta di lancia del marketing attuato dal sistema moda, occorre guardare alle dinamiche finanziarie che muovono le più recenti strategie brand. Senza far caso a queste, le immancabili lodi dedicate al talento di questo o quell’altro fashion designer sono ormai un insensato esercizio barocco.
Le acquisizioni dei brand Tapestry, LVMH, Pegasus
A metà agosto Tapestry, il gruppo americano che possiede Coach, Kate Spade e Stuart Weitzman, ha acquisito Capri Holdings, altro gruppo americano in possesso dei brand Michael Kors, Jimmy Choo e Versace. Operazione da 8,5 miliardi di dollari con cui si è creato un conglomerato con un fatturato annuo che supera i 12 miliardi di dollari: si tratta quindi del secondo gruppo moda americano dopo PVH, proprietaria di Calvin Klein e Tommy Hilfiger.
L’idea è quella di acquisire una massa critica in grado di spostare i brand in portafoglio dalla fascia del lusso accessibile (Coach) a quella del lusso vero e proprio: fatta esclusione, come naturale, per Versace che nella percezione del grande pubblico a questa fascia appartiene da sempre. Il fatturato del nuovo conglomerato made in Usa, tuttavia, resta parecchio distante da quello di gruppi europei come Kering (Gucci, Balenciaga, ecc.) e LVMH (Louis Vuitton, Dior, ecc.) che hanno rispettivamente capitalizzazioni di mercato di 405,15 miliardi e 64,14 miliardi di dollari. Dunque, l’operazione appena effettuata, qualche rischio lo comporta. Nel 2000, ad esempio, il gruppo Pegasus acquista velocemente marchi come Miguel Adrover, Daryl K e Judith Leiber, per poi fallire altrettanto velocemente. Se è vero che anche i super-gruppi europei sono enti pubblici, è pure vero che la loro caratteristica è quella di essere gestiti da azionisti “familiari” capaci di visioni più lungimiranti. Non è così per i gruppi americani guidati da dirigenti (in ogni caso lavoratori dipendenti) molto, se non esclusivamente concentrati, sui rendimenti a breve termine: l’arco di tempo delle relazioni trimestrali con cui devono rendere conto delle loro operazioni agli azionisti di riferimento.
Il sandalo di Barbie by Birkenstock
Kering, controllata dalla famiglia Pinault, lo scorso 27 luglio a fronte di una trimestrale non brillantissima ha rilanciato acquisendo una partecipazione del 30% in Valentino per 1,7 miliardi di euro versati al fondo di investimento del Qatar Mayhoola. Poi, nella prima metà di agosto, il gruppo francese avrebbe (la notizia data per certa non è confermata né smentita dagli interessati) acquisito dal suo fondatore il 49% del brand milanese di alta gioielleria Vhernier. Il 26 giugno, invece, il 100% del marchio di profumeria Creed rilevato dal fondo di private equity BlackRock Long Term Private Capital Europe. Proprio l’alta gioielleria e il beauty sono le nuove aree di sviluppo dei protagonisti dei protagonisti del fashion.
Dolce&Gabbana da qualche tempo, insieme alle collezioni haute couture, presenta (e si è attrezzato industrialmente per produrle) collezioni di alta gioielleria. Il portafoglio LVMH (proprietà della famiglia Arnault) vanta Bulgari e Tiffany mentre sta estendendo l’offerta in questa direzione anche per Dior, con collezioni ricche di gioielli milionari. Ma i 75 marchi in portafoglio sembrano non bastare alle manovre finanziarie di LVMH. Poco dopo la partecipazione del celeberrimo sandalo Arizona nel cameo del film Barbie, è arrivato l’annuncio che anche Birkenstock si prepara al suo debutto in borsa. La quota di maggioranza del marchio tedesco di calzature appartiene dal 2021 al private equity L Catterton (partner finanziario di LVMH) che sta per lanciare la nuova IPO (offerta pubblica iniziale) con Birkenstock valutata tra gli 8 e i 10 miliardi. Birkenstock è solo l’ultimo dei marchi portati in borsa da L Catterton, dopo Lanvin (dicembre 2022) e il rivenditore di prodotti di bellezza israeliano Oddity Tech, (luglio 2023).
La crescita del business di gioielli e cosmetici
Se i super gruppi del fashion si attrezzano per competere in nuove aree di possibile sviluppo, un super gruppo del beauty come Estée Lauder lo scorso aprile ha portato a termine l’acquisizione del marchio Tom Ford per utilizzare la rilevanza acquisita da quest’ultimo nell’abbigliamento nell’area di sua stretta competenza. Proseguono nel frattempo i crossover, alcuni davvero sorprendenti. Il marchio di abbigliamento maschile Billionaire Boys Club (BBC), fondato da Pharrell Williams insieme al dj di origini giapponesi Nigo, lo scorso 15 agosto ha annunciato di aver collaborato con Moncler per migliorare la qualità della propria offerta. Il che, in pratica, significa che il brand italiano ha messo a disposizione la propria capacità produttiva per realizzare una specifica capsule per BBC. Questa è stata posizionata sui canali online di entrambi i brand, oltre che negli store BBC di Londra, New York, Miami, Tokyo e Hong Kong. Moncler, in questo modo, ha acquisito una visibilità altrimenti impensabile tra i fan musicali che guardano a Williams e Nigo. Tutto regolare: forse sì, ma in ogni caso sorprendente perché Nigo è il direttore artistico di Kenzo dal 2021 e Williams di Louis Vuitton Uomo dalla scorsa stagione: due marchi parte del portafoglio di LVMH che con Moncler davvero non ha nulla a che fare. C’è poi l’ennesima collaborazione avviata dalla giapponese Uniqlo insieme alla spagnola Inditex (Zara, Oysho, Massimo Dutti…) e alla svedese H&M, il più potente tra i gruppi produttori dI fast fashion, la punta di diamante della non-sostenibilità del fashion system nel suo complesso. Dopo collaborazioni con personaggi del calibro di Karl Lagerfeld, Lady Gaga, Rey Kawakubo, e più di recente di JW Anderson (Loewe), Christophe Lemaire (ex-Hermes), Ines de la Fressange e Roger Federer (il fuoriclasse del tennis) tocca ora a Clare Waight Keller, l’ex fashion designer di Chloé e Givenchy. La sua nuova linea viene introdotta proprio questo settembre. E andrà ad affiancare con un altro sofisticato quanto quantitativamente insignificante greenwashing la terribile realtà di queste catene produttive.
L’agenda 2030 e il mondo della moda
L’industria della moda nel suo complesso è di nuovo sulla buona strada per non raggiungere gli obiettivi fissati e “pubblicizzati” negli ultimi due anni per la riduzione di emissioni di gas serra, del 50-60% entro il 2030. Con conseguenze potenzialmente catastrofiche per la vita del pianeta. Affrontare il problema della sovrapproduzione è quanto di più lontano possa esistere dalle dinamiche finanziarie orientate alla crescita senza limiti, con il risultato di far salire alle stelle le già elevate emissioni che contraddistinguono il settore. Se a tal proposito è il gruppo Kering ad essersi mosso con più decisione, in questa direzione con altrettanta schiettezza va detto che lusso, lusso accessibile e fast fashion appaiono sempre più intrecciati, spesso – come visto sopra – capaci di operazioni mimetiche.
Aldo Premoli
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