Il palcoscenico per presentare la seconda stagione della serie Classics Quoted by Xi Jinping è stato scelto con cura, attendendo la visita di Stato in Sudafrica del Presidente cinese. Del resto, la serie intende trasferire ai telespettatori africani la conoscenza della cultura cinese tradizionale, e come tale cultura rappresenti un elemento importantissimo nell’attuale politica cinese.
Ai nostri occhi europei, un’operazione simile appare come un caso di evidente propaganda. Il grande leader che consacra la propria persona inserendosi in millenarie tradizioni è un’azione verso la quale abbiamo una innata repulsione, e nei confronti della quale abbiamo sviluppato anticorpi concettuali che ci consentono di riconoscere la propaganda e, in quanto tale, declassificarla.
Ci sono però delle riflessioni che è opportuno condurre, a questo punto: la prima è che non è affatto detto che questa repulsione al leader sia globale. Non bisogna sottovalutare Pechino: dopo l’attenzione con cui negli ultimi anni la Cina si è mossa in ambito internazionale sarebbe presuntuoso archiviare questa operazione come un esempio di goffaggine istituzionale.
“Ciò che la Cina esporta è la versione contemporanea di sé stessa”
Politica, propaganda e cultura
La seconda riflessione tiene in considerazione un altro elemento che, dall’era pre-ellenica, ha caratterizzato numerosi casi di influenza culturale “internazionale”. Le influenze culturali non potevano che essere successive a influenze di altra natura, sia essa bellica o commerciale. E frequentemente la nazione più ricca esercitava un’influenza su quella più povera. Tale influenza, poi, conferiva alla cultura – intesa come un insieme di valori, norme, gusti estetici e modi di vivere – una importante valenza anche “politica”.
Non appaiono dunque del tutto casuali i riferimenti agli investimenti cinesi nel continente africano, né risulta nuova la volontà pubblica di mettere in luce alcuni aspetti culturali del popolo cinese, chiaramente espressa durante la cerimonia dal presidente del China Media Group che ha sottolineato come questa serie possa anche aiutare i “nostri amici africani” a comprendere meglio la cultura, la saggezza e lo spirito cinese, così da capire quanto le persone cinesi siano affidabili e amabili.
L’investimento culturale della Cina in Africa
Né bisogna tralasciare che, in questo frangente, l’insieme di investimenti cinesi in materia di comunicazione è stato, nel tempo, corposo. Al punto che, in un articolo pubblicato dall’ISPI a firma di Rebecca Arcesati, si evidenzia come a partire dagli ultimi Anni ’90 la Cina abbia finanziato e costruito una quota rilevante dell’infrastruttura digitale africana e altri numerosissimi investimenti infrastrutturali (strade – autostrade – miniere – ecc.).
Interventi, questi, che richiedono anche una presenza fisica di persone cinesi all’interno delle città e dei centri urbani africani. Qui entra in gioco la dimensione culturale, perché la barriera della lingua, da una parte e dall’altra, è forte. Oggi, stando a quanto indicato dal Corriere della Sera, nelle scuole secondarie di Uganda, Kenya, Tanzania e Sud Africa è previsto l’insegnamento del mandarino. In Kenya, ad esempio, potranno studiare cinese i bambini dai 10 anni in su.
Si tratta di azioni i cui effetti saranno visibili soltanto nel lungo periodo. Ma su questo, va riconosciuto, la politica cinese ha davvero attinto a quei valori di saggezza e pazienza che vengono indicati come tipici della loro cultura millenaria. Ciò che questa vicenda mette in luce, quindi, è un approccio culturale di Pechino che è molto differente da quanto il nostro Paese, ad esempio, cerca di adottare in termini di influenza culturale all’estero.
“In Italia, invece che inserirci all’interno di altre economie, lasciamo che siano altre economie a investire sul nostro stile di vita”
Il valore del soft power e come usarlo. Un monito per l’Italia
Nella versione cinese, il soft power è un’azione che segue una penetrazione invisibile all’interno dei Paesi target: prima i capitali, poi le infrastrutture, poi gli scambi commerciali, e infine la cultura.
Soprattutto, ciò che la Cina esporta è la versione contemporanea di sé stessa. Certo, tenendo conto ed esaltando il rapporto con il passato e con il proprio patrimonio, ma come valore aggiunto a ciò che oggi la Cina rappresenta.
In questo, probabilmente, l’Italia potrebbe trarre qualche insegnamento. Insegnamento che, si badi bene, di certo non si limita alla “comunicazione” e alle “relazioni internazionali”. Si fonda sugli investimenti. Perché per esportare una visione competitiva del presente, bisogna in primo luogo costruire tale competitività. Con pazienza. E secondo una logica pluriennale. Per ragioni di sistema politico, per demografia e per capacità economica, non possiamo di certo replicare quanto sviluppato dalla Cina.
Possiamo però investire su particolari settori nei quali potremmo avere un vantaggio competitivo rispetto ad altri Paesi. Le nostre Industrie Culturali e Creative, ad esempio, potrebbero essere messe in condizioni di esportare di più, di inserirsi maggiormente nelle catene di creazione del valore in Paesi con i quali potrebbe per noi essere utile avviare una relazione pluriennale di partnership.
Invece, puntiamo tutto sul patrimonio. Invece che inserirci all’interno di altre economie, lasciamo che siano altre economie a investire sul nostro stile di vita.
Stefano Monti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati