L’arte a sostegno dei diritti civili. Intervista alle artiste Victoria Cantons e Xu Yang
Dopo le celebrazioni annuali dell’orgoglio LGBTQIA+, i riflettori sui diritti della comunità paiono spegnersi. Ne abbiamo discusso con le artiste di base a Londra, coppia nell’arte e nella vita
Sembra facile attirare l’attenzione del grande pubblico su tematiche di genere in determinati periodi dell’anno: LGBT+ History Month e Pride Month, in primis, fungono senza dubbio da catalizzatori.
Altro discorso è parlare di comunità LGBTQIA+ in maniera costante ed interessante in tutti i restanti mesi. Un obbiettivo perseguito dalle artiste Victoria Cantons e Xu Yang che, grazie alla loro pratica artistica, sostengono senza riserve i diritti civili.
Un proposito perseguibile con più facilità nel Regno Unito, dove Cantons e Yang risiedono, visto il numero di attività ed il sostegno alla comunità LGBTQIA+ garantito da molti soggetti pubblici.
Meno in altre nazioni tra cui, purtroppo, l’Italia.
Nel nostro paese le due artiste sono giunte qualche mese fa, in occasione dell’esposizione di alcune loro opere all’interno della collettiva The Object Stares Back, a cura di Mattia Pozzoni, organizzata presso lo spazio milanese Tube Culture Hall.
Non a caso la mostra affrontava il tema dell’osservazione del corpo femminile, mettendo al centro la donna come protagonista e non esclusivamente come ricettore degli sguardi altrui. Un argomento che ha ottenuto un alto consenso da parte del pubblico.
Victoria Cantons e Xu Yang: la loro storia
Buona quindi la prima italiana per le due creative originarie rispettivamente di Londra e Zibo (Cina). Victoria Cantons, classe 1969, con una laurea triennale in Belle Arti e Pittura al Wimbledon College of Arts ed un master alla Slade School of Fine Art, ha all’attivo numerose mostre personali e collettive tra Londra, Singapore e Los Angeles. È stata, inoltre, definita dal Financial Times come “un’artista su cui investire”.
Xu Yang è nata, invece, nel 1996 e ha completato la propria formazione in Fine Art Painting al Wimbledon College of Arts e al Royal College of Art. L’artista ha recentemente ottenuto una commissione dalla Tate Collective in occasione dell’LGBT+ History Month 2023; nel 2020 è stata selezionata per il Contemporary Young Artist Prize e nel 2019 è stata la vincitrice del Barbican Arts Group Trust ArtWorks Open. Le abbiamo intervistate
In che modo letteratura e poesia hanno profondamente influenzato il tuo percorso?
V.C. Sono sempre stata appassionata di disegno, ma la mia famiglia non incoraggiava questa espressività bensì la lettura. In occasione delle principali ricorrenze mio padre mi regalava grandi classici della letteratura, volumi di poesie ed enciclopedie. Ho così modellato i miei gusti sulla base di ciò che leggevo e mi sono interessata ai drammi storici ed al teatro. Tutto questo si è poi unito alla passione per l’arte visiva, che è diventata lo strumento migliore per indagare me stessa e pormi domande sull’esistenza. Amo, in questi casi, citare l’artista Lynette Yiadom-Boakye: “Scrivo di cose che non posso dipingere e dipingo cose di cui non posso scrivere”. Trovo che usare testo e immagini sia il modo migliore in cui posso esprimermi.
La principale fonte di ispirazione delle tue composizioni è il periodo storico del Rococò. Da cosa deriva questa scelta?
X.Y. In quanto donna cresciuta in una comunità molto conservatrice non potevo esprimere la mia opinione su questioni sociali e identitarie. Ho così sviluppato una forte affinità con le dame di corte francesi del XVII e XVIII secolo. Il trucco e l’abbigliamento sono sempre stati delle modalità con cui esprimere il proprio sentito. Ho quindi deciso di unire i fasti e la forte creatività Rococò all’estetica drag come mezzo per indagare il mio essere.Inoltre, da bambina, sognavo di vivere una vita da principessa, similmente alle favole proposte dalla Disney, ma, provenendo da una famiglia non abbiente, sapevo che il sogno non si sarebbe avverato. Mai avrei immaginato che l’indagine dell’espressività drag mi avrebbe fatto provare le medesime sensazioni, consentendomi di esplorare i ruoli di genere e gli archetipi storici che ancora imbrigliano la femminilità.
Molto spesso le tue opere insistono su un concetto che tu esemplifichi con la frase “niente è assoluto o eterno”. In che senso?
V.C. Ritengo che il genere umano attribuisca un valore immenso all’eternità. In realtà tale assunto è di per sé sbagliato: nulla dura per sempre, tutto viene inghiottito dal sole e bruciato in atomi ed elettroni. Ciò però non significa che non sia prezioso. Anzi, è proprio la caducità delle cose ad attribuirgli valore. Ed è partendo da queste premesse che una serie di tematiche sono diventate importanti nel mio lavoro. Ad esempio, i concetti di memoria, tempo e identità che si mescolano a istanze sulla vita, la morte, l’amore, la guerra e la fede. Ovviamente è il tempo ad essere il principio cardine su cui si basa la mia creazione: attraverso l’arte le persone possono esperire emozioni attribuibili ad epoche diverse. “All eternity is in the moment” scrive Mary Oliver, forse riferendosi ai poeti William Blake e Walt Whitman.
Spiegaci meglio…
Lottiamo con tutte le nostre forze per conservare, il più a lungo possibile, ogni elemento in quella che Bertrand Russell definisce “una grandezza di contemplazione“. Al contempo, però, soffriamo per la piccolezza della nostra esistenza temporale. Nella pratica artistica mi interesso anche al tema dell’identità e al modo in cui ci relazioniamo con il mondo che ci circonda. La maggior parte delle opere tratta questioni relative alla libertà dell’individuo, al modo in cui le persone modellano le proprie convinzioni e al prendere coscienza del proprio essere. Il tutto riletto attraverso la mia esperienza di vita.
Ci descrivi il progetto artistico che ti ha commissionato la Tate Collective in occasione dell’LGBT+ History Month 2023?
X.Y. Quando ero una teenager non conoscevo la comunità LGBTQ+ e la sua storia. Ho, infatti, scoperto la mia identità queer arrivando a Londra e frequentando dei drag club con gli amici. È stato emozionante osservare, per la prima volta dal vivo, questo tipo di espressività. La mancanza di timore nel mostrare se stessi mi ha fatto sentire libera. Ritengo sia molto importante concedere più spazi di comunicazione alla comunità LGBTQ+ e così, quando la Tate Collective mi ha contattata per realizzare un’opera che celebrasse la sua storia, è stato un vero onore. Nel dipinto in questione ho ritratto me stessa: condividere la propria esperienza personale è il mezzo più potente che abbiamo per entrare in connessione con gli altri. L’istituzione mi ha chiesto di collegare l’opera ad una presente nella collezione permanente.
Che opera hai scelto?
“Portrait of a Lady” di Angelica Kauffman. Si è molto discusso su chi potesse essere il soggetto ritratto dalla Kauffman: forse un’intellettuale della fine del XVIII secolo o la pittrice stessa. Ciò che mi ha colpita è che le dimensioni del quadro sono modeste, eppure la protagonista è presentata con tutti gli onori che le spettano. Così, quando ammiro l’opera in qualità di donna queer asiatica, giunta a Londra per vivere e lavorare, mi sento incoraggiata nell’affrontare il mio percorso. Dunque, in risposta alla Kauffman, ho realizzato un autoritratto a figura intera, in cui indosso un abito molto particolare e tengo in mano un pennello. Vorrei che le persone, osservandolo, trovassero la forza per rivendicare la visibilità che gli spetta. Non a caso sulla tela si nota la forte presenza del colore viola: la cromia rappresenta coloro che sono attratti da due o più sessi, oltre a essere formata da un mix di tonalità blu e rosa che prendono ispirazione dalla bandiera trans. Il colore diventa il simbolo dell’abbattimento delle barriere.
La pittura è il tuo principale mezzo espressivo: puoi spiegarci il tuo stile?
V.C. Definirei il mio stile come “idiosincratico” in quanto esploro l’intersezione tra astrazione e figurazione. Realizzo, infatti, tele figurative e naturalistiche che traggono molto del loro contenuto da immagini fotografiche e, al contempo, creo anche dipinti espressionisti che incorporano astrazioni, linee gestuali e calligrafiche.La maggioranza delle opere propongono immagini di membri della mia famiglia, autoritratti, fiori e oggetti. In alcune inserisco delle citazioni di Catullo, Cavafy, Eliot, Omero, Keats, Monahan, Ovidio, Rilke, Rivkin, Shakespeare e molti altri, oltre a mie composizioni. Non ultimo includo nei lavori concetti legati al genere, attingendo alle mie esperienze di donna gay e transgender cresciuta in una casa multiculturale e multireligiosa da genitori immigrati.
Nei tuoi dipinti si osservano molti oggetti della vita quotidiana, quali parrucche e gioielli, a cui attribuisci precisi significati simbolici. Quali nello specifico e a che maestri della storia dell’arte ti ispiri?
X.Y. Gli oggetti che inserisco servono a identificare e rappresentare l’identità di una persona. Ogni giorno scegliamo ciò che indossiamo e che ci rappresenta, come del resto l’estetica drag si basa sul dimostrare esternamente il proprio io interiore grazie all’utilizzo di particolari accessori.
A chi ti ispiri?
Soprattutto a pittrici storiche: Elizabeth Vigée Le Brun, Angelica Kauffman e alle prime opere di Artemisia Gentileschi. In questo modo realizzo non solo grandi ritratti, esplorando ciò che una donna può essere, ma indago anche il significato dell’arte stessa. Recentemente ho iniziato a studiare le composizioni di Tiziano e di Rembrandt, il loro uso del colore e del segno. Un altro campo di indagine a me molto caro è quello della figura femminile ritratta da sguardi maschili. Credo che la nostra società sia ancora fondamentalmente patriarcale: abbiamo molta strada da fare per giungere alla parità dei sessi e la pittura può aiutarci a ribaltare il punto di vista comune.
Come riportato nel tuo statement artistico: “Essere in grado di accettare, dichiarare e celebrare se stessi significa intraprendere un viaggio senza fine che per me è stato caratterizzato da angoscia mentale, traumi e cicatrici”. A che punto del percorso sei giunta?
V.C. Il viaggio è ancora in corso. Essere in grado di accettare, dichiarare e celebrare se stessi per me è stato un percorso costellato di molti traumi personali, oltre che di lotte per far accettare il mio essere transgender. Sono stata in guerra con il passato e il corpo per anni e suppongo che la consapevolezza di queste lotte abbia contribuito all’indagine sulla condizione umana che affronto nel mio lavoro. Se sei fortunata, impari a vivere: i tagli guariscono, ma le cicatrici rimangono. L’amore è l’unica arma che possiamo utilizzare. Mi ritengo una persona dalla mentalità molto aperta, ma non desidero essere definita da ciò che condivido, così come non amo essere valutata esclusivamente sulla base dell’essere una donna transgender. Raccontando la mia storia spero di aiutare altre persone. Si dice che l’onestà sia uno dei migliori strumenti che abbiamo a disposizione per combattere i pregiudizi: i segreti fanno male a coloro che li mantengono. Per questo mi sento di consigliare di scegliere sempre la via della verità: solo così si può essere liberi.
Elisabetta Roncati
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