La galleria Tommaso Calabro chiude a Milano dopo 5 anni. E apre tre nuovi spazi
Dopo l’ultima mostra nel bellissimo appartamento in Piazza San Sepolcro a Milano, la sua galleria è pronta a fare le valigie. Quale sarà la prossima destinazione?
Cinque anni sono passati da quando, nel settembre 2018, il giovane gallerista Tommaso Calabro aprì le porte del piano nobile di Palazzo Marietti. Lo storico edificio milanese, in Piazza San Sepolcro, ha fatto da cornice a una ricca serie di mostre di protagonisti del Novecento. Artisti più o meno celebri, ma tutti connessi tra loro, hanno animato le sale ottocentesche, intessendo un dialogo capace di andare oltre le pareti. Fino a toccare le suggestioni rinascimentali della vicina Pinacoteca Ambrosiana. Ma ora, volenti o nolenti, è il momento di cambiare indirizzo. E il motivo ce lo spiega il diretto interessato, con cui abbiamo ripercorso tutta la storia, anticipando il futuro.
Malgrado tu sia già pronto a inaugurare un nuovo capitolo, la tua storia di gallerista ha un inizio recente. Come sei arrivato in Piazza San Sepolcro?
Dopo la laurea alla Bocconi nel 2012, ho seguito due master al Courtauld Institute of Arts e al Kings College di Londra, e poi ho cominciato a lavorare in galleria. Sono stato assunto da Nahmad Projects: galleria londinese che ho diretto per tre anni. Anni intensi, pieni di progetti, che mi hanno preparato a tornare a Milano, con l’intento di aprire uno spazio tutto mio.
I motivi dietro alla scelta della sede di Palazzo Marietti? Come hai ottenuto lo spazio?
Ho trovato l’annuncio di affitto online. Mi ha convinto subito: aveva un’estetica che si confaceva alla perfezione con la mia idea di galleria. Non cercavo il solito cubo bianco, magari anche molto esteso e con un sacco di pareti disponibili, ma estremamente neutro e impersonale. Volevo un contenitore di storia: un edificio caratteristico, capace di raccontare qualcosa insieme alle opere che vi avrei esposto. Il mio intento era, ed è tutt’ora, quello di creare una narrazione all’interno di ogni mostra. Cosa possibile solo se si hanno a disposizione più stanze, e con un passato già alle spalle. Palazzo Marietti era l’ideale per questa funzione.
Parliamo adesso di questi primi anni di storia milanese. Con cosa hai cominciato?
La prima mostra che ho organizzato nel 2018 era un tributo al gallerista italiano Carlo Cardazzo, con due artisti da lui particolarmente prediletti. Cy Twombly e Tancredi Parmeggiani.
E poi? Con quali artisti hai proseguito, e come hai affrontato il periodo del Covid?
Da lì, ho proseguito con Dubuffet, altro artista legato a Cardazzo, di cui ho proposto, oltre ai disegni su carta, alcuni video d’epoca e una colonna sonora. Un’altra mostra importante è stata quella su Alexander Iolas, grande mercante d’arte del secondo Novecento che portò i surrealisti a New York, e organizzò la prima e l’ultima mostra di Warhol. Proprio in quel periodo (era l’autunno 2020), quando Milano era in Zona Arancione, ho avuto moltissimi visitatori. A causa del Covid, i musei erano chiusi, ma la gente continuava ad aver voglia di immergersi nell’arte. Gli unici posti aperti erano le gallerie, così mi capitava persino di avere cento, o addirittura centocinquanta visitatori al giorno. Gli affari continuavano, seppur a distanza, e così ho superato anche quei mesi difficili.
Hai detto di aver scelto Palazzo Marietti perché rispondeva alla tua idea di galleria capace di sviluppare narrazioni. Ciascuna storia espositiva è a sé, oppure c’è un filo rosso, dietro alle mostre di questi anni?
Fin da subito ho cercato di creare un filo conduttore tra le scelte di presentare determinati artisti. Prima ho portato in galleria personaggi legati a Cardazzo, e poi ho continuato con altri in qualche modo legati tra di loro. Fini e Lepri, ad esempio, sono entrambi stati trattati da Iolas, a sua volta connesso ai precedenti. Tutti questo per dire che nessuna mostra è a sé: fanno parte di un’unica narrazione continua. Almeno per me, che so vedere certe affinità estetiche, c’è sempre una vicinanza tra gli autori.
E per quanto riguarda il tuo lato di collezionista? In che rapporto è con il “Tommaso gallerista”?
Essere entrambe le cose non è facile. Prima di essere gallerista, sono collezionista. Acquisto le opere in anticipo, e mi oriento in genere verso artisti surrealisti e del Novecento perché mi piacciono e ne sono appassionato. L’idea di farci una mostra viene dopo, e non è scontata. Degli autori che tratto, cerco sempre di tenere qualche pezzo. Per passione, prima che per motivi commerciali.
Hai da poco annunciato l’ultimo atto nella scena di Piazza San Sepolcro. Come mai questo cambiamento?
Non è stata una scelta, ma una necessità. I proprietari del Palazzo in cui sono in affitto hanno deciso di venderlo. E non si sa quale sarà la sua futura destinazione. Ho colto l’opportunità per fare qualcosa di nuovo, pur rimanendo a Milano. Prima però, l’ultima mostra qui.
Che cosa ci aspetta il 30 settembre?
Ho preparato un percorso che ripercorre tutti questi cinque anni. Molti pezzi sono miei, altri in prestito da varie collezioni private. Ad aprire le danze sarà un Magritte.
Qual sarà il nuovo indirizzo della Galleria?
In Corso Italia, al piano terra di un altro storico palazzo ottocentesco. A un passo da Porta Lodovica. Lo inaugurerò a gennaio, con tre artisti ancora in dialogo con i precedenti, soprattutto con Iolas. Tiger Tateishi, Harold Stevenson e William Copley. La narrazione continua.
E di Venezia e Feltre, tua città natale, che ci dici?
Per Venezia è presto per le anticipazioni. Di Feltre, invece, posso annunciare che apriremo una nuova sede in primavera, in un bellissimo palazzo del ‘500. Ho intenzione di farci progetti particolari, e ci sarà spazio anche per il Contemporaneo. A occuparsene principalmente sarà mio fratello Nicolò. Io, a Feltre, ci vado poco purtroppo, malgrado ami molto la mia città. La galleria sarà un’occasione per tornarci più spesso.
Emma Sedini
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