Ancora sulla critica d’arte. Dalla galassia dei social a Carla Lonzi
Il clima psicologico attuale di costante delegittimazione e denigrazione dell’altro non è propriamente il più adatto alla crescita e allo sviluppo di una sana critica. C’è ancora molto da imparare dalla lezione di Carla Lonzi
Dunque, prima di passare ad altro vorrei tornare sulla questione del critico e della critica d’arte, della sua presenza e/o della sua assenza nel panorama artistico odierno.
Il dibattito sulla critica sui social
Interessante è l’aspetto dei commenti sotto i post sui social. Commenti di solito imbronciati, che hanno quasi sempre la medesima postura: qualunque cosa tu o altri possiate aver scritto in merito all’argomento di cui si sta parlando, gli autori dei commenti la sanno infatti sempre più lunga, e il loro compito è ovviamente farti notare quanto sia inutile sprecarsi a riflettere e a scrivere, perché tanto siete tutti dei venduti, siete tutti degli incapaci, e tanto l’arte è finita e quindi anche chi scrive i libri (di critica d’arte, nella fattispecie) non capisce niente e lo fa per motivi che non sono affatto quelli per cui si scrivono i libri e che, tra l’altro, sono quasi sempre ambigui e sospetti…
Tutto ciò la dice lunga sul clima attuale, psicologico prima ancora che culturale, di costante delegittimazione e denigrazione dell’altro – e fa capire molto bene anche perché un clima del genere non sia propriamente il più adatto alla crescita e allo sviluppo di una sana critica (non solo ovviamente nel campo dell’arte contemporanea, ma in tutti i territori culturali).
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L’esempio di Carla Lonzi post 1969
La dice lunga anche sull’impossibilità – virtuale e concreta – di stabilire una vera, seria e interessante conversazione pubblica, in questo momento.
Mi sembra infatti che tutti o quasi tutti siano più che altro interessati e impegnati a fare la propria dichiarazione, a “dire come la pensano”, forte e chiaro (sulle piattaforme), e che ci tengono tantissimo a far sapere
D’altra parte, viene evocato per esempio il ‘silenzio’ di Carla Lonzi post-1969 come un modello attuale: benissimo, dato che la Lonzi ha molto da insegnare, forse oggi ancora più di cinquant’anni fa. Ma mi pare che questo stesso silenzio venga a volte abbastanza frainteso, e scambiato per quello che non è mai stato.
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Autoritratto di Carla Lonzi
Dopo il tour de force di Autoritratto (1969), caratterizzato dalla rinuncia di fatto alla critica d’arte attraverso la messa in discussione del “mito culturale dell’arte” e dall’identificazione con gli artisti e con la loro pratica contro il potere ideologico e coercitivo del linguaggio critico (“l’atto critico completo e verificabile è quello che fa parte della creazione artistica”), Lonzi abbandona in poco tempo questa visione e muta dolorosamente prospettiva.
Nel diario degli anni successivi, infatti (Taci, anzi parla, 1978), racconta la propria successiva disillusione, rappresentata principalmente dalla rottura dell’amicizia con Carla Accardi, che era diventata negli anni precedenti per lei il simbolo di quella libertà e di quella liberazione ricercata attraverso l’esplorazione comune del femminismo e dei suoi temi: si tratta da una parte di un capovolgimento totale del punto di vista, e al tempo stesso dall’altra di un’estensione, di un allargamento, di un ampliamento indefinito di questo sguardo.
Carla Lonzi e Carla Accardi
L’artista così, la “personalità creativa”, subordina gli altri proprio nel momento in cui sembra favorirne l’apertura e la liberazione: “La personalità creativa, intanto che sembra dare agli altri, toglie loro la possibilità di fare centro su di sé e di mirare ad una liberazione in proprio. L’artista accetta la liberazione di riflesso che egli elargisce, anche se non si accorge che il sospetto che egli ha verso lo spettatore è un risultato inconscio di questa operazione ambigua. Quando ho capito che mi si chiedeva di immedesimarmi nello spettatore ideale, mi sono sentita a disagio. Che funzione era quella? D’altra parte, l’ambiguità dell’artista verso lo spettatore viene dal fatto che lui ne ha bisogno e perciò deve sentirsi autorizzato a procurarselo: lo cerca, lo alletta, lo adopera, lo ricaccia lontano dalla ricerca di sé. Nonostante tutto l’artista fa il vuoto di creatività attorno a sé. Per questo dicevo che [Carla] porta nel femminismo un equivoco derivato anche dalla distribuzione dei ruoli nella creatività: richiamando continuamente sé nell’autocoscienza del gruppo sembra arricchire le altre, in realtà le riduce all’ascolto e impedisce loro di trovare la forza di affermarsi e pretendere attenzione” (C. Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1978).
Il soggetto-artista appare intrappolato nelle sue strategie di sottomissione dell’altro, e al centro di queste strategie c’è il problematico rapporto dell’opera con lo spettatore, il fatto dato per acquisito che l’opera e il suo autore ‘pretendano’ uno spettatore, e che il tipo di sguardo di questo individuo (ideale e reale) si adegui perfettamente al ruolo definito una volta per tutte.
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A questa “finzione” Carla Lonzi si ribella decisamente, proponendo da una parte concetti-chiave come “autenticità”, “coscienza/autocoscienza” e “relazione” – dall’altra coerentemente fuoriuscendo completamente dall’ambito della critica, delusa dagli artisti che non hanno voluto seguirla nella zona sconosciuta in cui si è inoltrata. Quindi, ancora una volta: non si può essere al tempo stesso contro-il-sistema e il-sistema, fuori e dentro di esso, così come non puoi stare in silenzio, pretendere che venga interpretato come un non-silenzio e poi parlare in continuazione per argomentare questo ‘silenzio’… Altrimenti, si rischia l’effetto francamente un po’ ridicolo del morettiano “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”
Insomma, Carla Lonzi aiutaci tu. Anche magari con quella meravigliosa dichiarazione di ‘non-estraneità’ all’arte, che viene dopo la perdita del ruolo di critico assegnato dalla società: “Cosa rimane, adesso che ho perso questo ruolo all’interno dell’arte? Sono forse diventata artista? Posso rispondere: non sono più un’estranea. Se l’arte non è nelle mie risorse come creazione, lo è come creatività, come coscienza dell’arte nella disposizione al bene” (Idem, Autoritratto, Abscondita, Milano 2017, p. 13).
Christian Caliandro
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Christian Caliandro
Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…