Intervista a Chiara Baima Poma. La giovane pittrice dei ricordi senza tempo
Tradizione, famiglia, donne, icone. La giovane artista di Torino si racconta tra colori e figure, esaltando i corpi e le storie che questi nascondono
Chiara Baima Poma (Cuorgnè, 1990) è una giovane artista italiana che si è diplomata all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino nel 2010. Dopo aver creato il collettivo artistico Pacific Social Art Club a Londra con altre tre giovani artiste, si è spostata a Gran Canaria dove vive e lavora. Nel 2023 ha lavorato con la Galleria Peola Simondi di Torino con cui ha realizzato la sua prima personale dal titolo Specchi per le allodole. Chiara è precisa, meticolosa, e capace di raccontare passato e presente con un’allure calda e senza tempo.
Intervista all’artista Chiara Baima Poma
Quando è nata Chiara come artista?
Non c’è un momento preciso in realtà. Sono sempre stata considerata un’artista, fin da piccola, non nella maniera più “alta” del termine, ma semplicemente per giustificare le mie stranezze, il mio essere diversa. E poi disegnavo continuamente. In questo modo l’essere artista è diventato elemento fondamentale della mia identità, come parte del mio carattere. Forse per questo ho un’idea così fatalista dell’essere artista, lo si è o non lo si è, come un’inclinazione piuttosto che un’acquisizione. È un dono che si può coltivare o meno. Ma non si diventa artisti, si è artisti.
Cosa ti ricordi di te da bambina?
La mia è stata un’infanzia felice, così tanto che è difficile reggere il confronto con quel ricordo spensierato che ho di essa. Il passato è decisamente qualcosa da cui attingere dal punto di vista artistico, come una di quelle cose nostalgiche e lontane su cui la fantasia può lavorare indisturbata. I ricordi più luminosi della mia infanzia, comunque, sono le estati passate coi cugini dai nonni. Mi ricordo grandi avventure e tanto tanto gioco, tutto il giorno, fino allo sfinimento. E poi in bicicletta andare a prendere il latte da quell’amica di mia nonna che aveva la mucca (ritratta tante volte nei miei quadri).
Che bell’immagine…
Sì, e poi ancora, la sera ci ritrovavamo tutti a sgranar piselli col nonno in veranda dove d’estate pranzavamo e cenavamo. Ricordo ancora le pesche col vino a fine pasto, erano il mio “piatto” preferito. E quando poi lo raccontavo a scuola le maestre si scambiavano sguardi titubanti. Quella veranda è stata anch’essa il soggetto di uno dei miei quadri: Le donne della mia famiglia. Poi una parte dell’estate la passavo da quella mia zia, che è sempre stata considerata la pecora nera della famiglia, forse perché più sognatrice, più con la testa tra le nuvole.
Lei mi comprava per l’estate tanti gessetti colorati ed io passavo le giornate sotto il sole a disegnare sull’asfalto della piazzetta davanti la chiesa, ero la bimba madonnara.
Chiara Baima Poma: la carriera pittorica
Qual è stata la tua prima mostra?
La mia prima mostra (se così vogliamo chiamarla) è stata in una sorta di mensa popolare in Australia che veniva frequentata prevalentemente da persone in difficoltà di ogni sorta, e poi anche dagli abitanti del quartiere. Insomma, era un ambiente molto vario e dall’atmosfera accogliente. Io lavoravo in un negozio di scarpe lì a fianco, e mi ero affezionata a tutto quel via vai di gente, sempre la stessa, e avevo incominciato a disegnarli. La mostra era composta da serie di ritratti dei frequentatori della mensa.
E poi, come è proseguito il tuo lavoro?
Con Pacific Social Art Club (PSAC), un collettivo artistico che ho creato assieme ad altre tre artiste a Londra. Abbiamo fatto tante esposizioni, invitando anche altri artisti a collaborare e organizzando delle open call per coinvolgere e conoscere nuovi talenti emergenti. Con PSAC rivestiamo i ruoli di artiste, curatrici e galleriste. È tanto lavoro ma è divertente e stimolante. È un progetto sempre attivo: faremo presto una nuova edizione di PSAC, magari in autunno.
E le mostre?
Oltre alle esposizioni autoprodotte ci sono state le mostre con Black White Gallery, una galleria a Londra, la collettiva con ECOCA, un centro d’arte contemporanea in America, in Connecticut e poi la più recente, la personale con la galleria Peola Simondi nel 2023 dove ho esposto la mia serie incentrata sui modi di dire.
Qual è il tuo rapporto con la pittura? Conflittuale o armonico?
È assieme conflittuale e armonico. Questo perché è comunque un pensiero sempre presente, non appare o svanisce a seconda che io sia o meno in studio. Quindi a volte è molto difficile “sbarazzarsene” e prendersi davvero delle pause.
Poi sembra sempre che l’impellenza di dipingere arrivi quando non sia possibile farlo, quando sono in viaggio per esempio. Lì cerco di calmare quest’esigenza disegnando e facendo bozzetti per futuri dipinti. Una volta in studio poi è difficile riprendere il ritmo, sono come artisticamente costipata, ho raccolto troppe idee, troppi spunti che fanno poi fatica a venir fuori a momento debito.
E come ti senti invece quando inizi un’opera?
Quella è la sensazione più bella del mondo. Provo euforia, coinvolgimento totale in ciò che faccio, è come se tutto sia possibile ma al contempo non ancora scritto. La parte più bella è quando, iniziato un lavoro, ne vedi il potenziale ma ancora non sai esattamente come si evolverà. Lì tutto può essere e sta per essere. È come trovarsi nel posto giusto al momento giusto e l’opera è ancora per metà nel mondo delle idee e per metà nel mondo fisico, concreto. Ancora il lavoro mi appartiene ma sto per lasciarlo andare, sta per acquisire vita e volontà propria. Di li a poco mi dirà lui che colore usare, che dettaglio approfondire, e io sono costretta a piegarmi al suo volere altrimenti il risultato sarà forzato, artificiale. È un rapporto complesso quello con la pittura.
Qual è la tua modalità di lavoro? Sei veloce, rapida, o lenta, riflessiva?
Sono decisamente più lenta e riflessiva. Quando lavoro mi perdo nei dettagli, poi mi fermo ad osservare, e li passa un tempo che non saprei quantificare…
A volte spendo giorni su dei dettagli che poi, mio malgrado, non funzionano e infine mi convinco, rassegnata, a cancellarli. Sono convinta che il lavoro debba respirare, e quella che potrebbe sembrare una perdita di tempo è estremamente necessaria nella mia pratica.
Da dove nascono i tuoi lavori? Da esperienze di vita, o forse da un immaginario che sembra quasi onirico?
Davvero faccio fatica ad esprimere con le parole quello che esprimo con la pittura. Mi sembra non solo di non trovare le parole adatte, ma piuttosto che le parole “tolgano” invece di “aggiungere” valore ai dipinti. Sì, è vero che i miei dipinti rimescolano racconti, personali illusioni, passati idealizzati e presenti lontani, ma sono anche espressione della realtà, di esperienze personali. Comunque, in un certo senso mi piace non saperli definire del tutto. Il mistero mi affascina e il fatto che il mio processo di creazione sia addirittura un mistero per me forse è la vera spinta creatrice dietro il mio lavoro.
Parlaci dei soggetti che rappresenti. Sembrano figure così vive, affascinanti
I miei soggetti più che essere dei protagonisti sono dei portavoce, il mezzo per arrivare a quella sensazione impalpabile che è la vera protagonista dell’opera.
Parliamo di soggetti che sono quasi sempre donne
Certo i soggetti sono spesso donne, forse perché è più facile per me accedere a quel mondo/sensazione che tratto nei miei quadri. In più trovo il corpo femminile così pittorico, armonico in tutte le sue forme. Dipingere volti di donne con l’aria trasognata, vaga, sono i soggetti da cui traggo più piacere. Voglio che i volti languidi dei miei personaggi trasmettano quella misteriosa malinconia che è appunto il vero soggetto dell’opera, e che le domande che fanno sorgere a chi li osserva rimangano aperte all’immaginazione dello spettatore. Non c’è niente di più affascinante di una domanda senza risposta.
Il mondo dell’arte ti spaventa? E il mercato?
No, o meglio, non più. Forse mi ha spaventato in passato, ma era piuttosto la paura di non essere all’altezza o di espormi per poi fallire. È difficile mostrare qualcosa di così intimo come la propria arte e darla in pasto al mercato e alla critica. Mi rifugiavo dietro l’idea di non volerla compromettere, ma la verità era che non ero abbastanza forte e la mia pittura non abbastanza matura per mettermi in gioco. Adesso non dico di non temere la critica, e sì, ho infinite insicurezze, ma prevale la voglia di espormi e mostrare quello che faccio.
Dove lavori? Ora vivi a Gran Canaria, come mai questa scelta?
Sinceramente la scelta di Gran Canaria è dovuta principalmente dal clima e dal mare. Lo so, sembra banale, ma dopo qualche anno a Londra non lo è affatto. Qui posso permettermi uno stile di vita come in nessun altro posto. Le mie giornate si dividono tra lavoro in studio e mare. Certo non è tutto oro quello che luccica, troppo tempo sull’isola mi fa a volte sentire come in esilio, un esilio autoimposto di cui sono schiava per comodità. I viaggi quindi sono importantissimi per non sentirmi intrappolata in una vita troppo isolata, e col tornare dai miei viaggi torno ad apprezzare la vita nell’isola. Così semplice e sincera.
Parlaci del luogo che hai scelto per dipingere
Il mio studio è essenzialmente un’estensione dei miei dipinti: caotico, pieno di oggetti, dettagli e colori. Per me è importantissimo che il posto dove lavoro mi rappresenti e mi metta a mio agio: sono estremamente sensibile ai luoghi, mi possono stimolare o frenare, intristirmi o rallegrarmi. Tendo quindi sempre a “ritoccare” gli spazi dove vivo e lavoro. Sarà una deformazione professionale.
C’è una galleria con cui hai un rapporto fisso?
Sicuramente la galleria con cui ho organizzato la mia personale. Con Peola Simondi ho instaurato un rapporto di fiducia, un dialogo artista/gallerista che è per me un punto di riferimento e un sostegno sia morale che lavorativo indispensabile, da cui generare interessanti progetti futuri.
Che progetti hai per il futuro? Dacci qualche anticipazione…
Al momento sono reduce da un viaggio in Senegal da cui sono rimasta folgorata. Non mi aspettavo certo di trovare così tanti spunti per le mie opere. È stato come viaggiare in un mio dipinto. In Senegal ho respirato tanta vitalità che si trasmetteva grazie all’estrema ospitalità del posto, non ero solo spettatrice ma mi sentivo parte di quel modo di vivere così colorato, di quel percepire la vita così sacralmente scanzonata. Ovviamente, ho subito sentito l’esigenza di tradurre questo sentimento su tela e adesso sto lavorando ad una serie tutta senegalese dal nome A volte gli spiriti vogliono sangue.
Chissà quante nuove suggestioni
Sì, sto esplorando nuovi spunti stilistici tra cui la commistione di pittura e collage e l’uso di nuove palette di colore. Parallelamente alla serie pittorica, sto lavorando ad un libro d’arte che comprenderà tante nuove tavole (prevalentemente collage) che hanno come tema i Baye Fall, un’istituzione religiosa non canonica che valorizza il recupero delle tradizioni spirituali senegalesi.
Mi son trovata a passare molto tempo con i Baye Fall e tutto di loro mi ha incuriosito: l’attitudine spartana, l’amore incondizionato per il prossimo, lo stile di vita sobrio, la forte concezione spirituale e, ovviamente, la loro estetica che mixa punk e patchwork colorati, turbanti, cinture in pelle personalizzate e stratificazioni di tuniche iridescenti. Sono ovviamente diventati protagonisti di alcuni dei miei dipinti.
Domanda di rito: sogno nel cassetto?
Affrescare un’intera chiesa.
Gloria Vergani
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