L’installazione in Darsena a Milano per la strage di Lampedusa. Arte pubblica o cattivo gusto?
La chiglia di nave capovolta che affiora dalle acque della Darsena, circondata da crisantemi e braccia levate al cielo in cerca di aiuto affronta in modo didascalico e banale la dolorosa causa delle migrazioni. Così la retorica sostituisce la visione
Sono passati dieci anni dal 3 ottobre 2013, quando al largo delle acque di Lampedusa 368 migranti, affastellati su un’imbarcazione di fortuna proveniente dalla Libia, perdevano la vita nel tentativo di raggiungere le coste italiane, in cerca di un futuro migliore. In ricordo della strage – che è tutt’altro che un ricordo, perché in mare si continua a morire – è stata istituita nel 2016 la Giornata Nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, per commemorare “chi ha perso la vita nel tentativo di emigrare verso il nostro Paese per sfuggire alle guerre, alle persecuzioni e alla miseria”. A Milano – mentre ancora il dibattito politico sul tema è improntato a una fredda burocrazia, talvolta intrisa di cattiveria e ignoranza – il Municipio 6 ha scelto, meritoriamente, di esporsi, evidenziando l’importanza di ricordare. E di non voltare le spalle a una crisi umanitaria che ci riguarda tutti.
L’installazione in Darsena a Milano per ricordare la strage di Lampedusa
Dunque, lo scorso 30 settembre 2023 è stata inaugurata l’installazione “artistica” che resterà allestita nelle acque della Darsena fino al prossimo 8 ottobre, “con l’obiettivo di avvicinare e far toccare con mano la tragedia a cui assistiamo quotidianamente da lontano, attraverso le immagini di giornali e telegiornali, e alla quale siamo quasi assuefatti”, spiega una nota ufficiale del Municipio, presieduto da Santo Minniti, candidato alla Segreteria metropolitana del PD. Peccato che, come è sempre più frequente quando si tratta di commissionare un intervento di arte pubblica, l’opera in questione manchi totalmente di visione, limitandosi ad affrontare il tema in modo didascalico, più attenta a scioccare chi osserva con un’iconografia ingenua e banale (pure mal realizzata, all’insegna di un dilagante cattivo gusto che sarebbe fuoriluogo anche nel più trash degli allestimenti del Fuorisalone), che a stimolare una riflessione, ricorrendo al potere dell’immaginazione. Perché questo dovrebbe fare l’arte contemporanea in un contesto pubblico: schivare la retorica del “semplice ma potente”, per potenziare il messaggio di denuncia. Che invece al cospetto della chiglia di nave capovolta, circondata da 368 crisantemi e da braccia che emergono dall’acqua – come si presenta l’installazione meneghina – è fin troppo esplicito e didascalico nei contenuti, ma si perde nella fragilità di una messa in scena kitsch e politicamente corretta, priva di potenza concettuale.
La mancanza di visione dell’arte pubblica
Minniti così racconta il lavoro: “Le braccia che affiorano dall’acqua danno un messaggio crudo ma vero. Una scena che siamo tristemente abituati a vedere nelle immagini che arrivano dal Mediterraneo e che ci trasmette un dovere: tendere la mano. Perché le braccia che affiorano dall’acqua sono persone che lottano per la propria vita, uomini, donne e bambini che l’indifferenza e le misure ideologiche contro i salvataggi in mare rischiano di trasformare in corpi morti, a riempire quell’enorme cimitero che è ormai il Mar Mediterraneo. Non è criminale scappare dalla miseria, né cercare un futuro migliore per i propri figli. Criminale è voltarsi dall’altra parte davanti a quelle braccia tese. Dietro i numeri delle morti, ci sono storie e speranze che ci guardano dal fondo del nostro mare”. Un afflato più che condivisibile, specie per il pensiero che sostiene il ragionamento, che però conferma quanto la trattazione del tema sia stata scolastica, affidata alla retorica del “tendere la mano”. Ma non è ingiusto sostenere che un’operazione animata da buoni propositi sia intrisa di cattivo gusto? No, proprio perché l’installazione, così concepita, non rende giustizia alla causa dei migranti (e non si tratta di un caso isolato: pensiamo a Gli ultimi cinque pesci del mare di Patané nella Barcaccia del Bernini a Roma, la primavera scorsa, contro il cambiamento climatico).
Il problema, ancora una volta, sembra risiedere nell’incapacità dei decisori politici di relazionarsi con la pratica artistica per quel che dovrebbe essere: una forza che non cerca scorciatoie e che non propone soluzioni facili al fine di generare consenso (e voti in cabina elettorale).
L’installazione temporanea in Darsena, senza titolo, è stata prodotta e realizzata dalla società Kineticvibe, con il contributo dell’artista italo-argentino Emiliano Rubinacci, dell’Art Director Beppe “Treccia” Iavicoli, del designer Matteo Rossi e l’apporto calligrafico di Giuseppe Gep Caserta. Rubinacci (Buenos Aires, 1979), vive e lavora dal 2002 a Milano, dove si è laureato in Scultura all’Accademia di Brera: nel suo curriculum, la partecipazione ad alcune collettive promosse da gallerie milanesi, e poco più. Cos’ha portato a scegliere proprio lui per intervenire in uno spazio così rilevante della città? Un concorso? Una indagine ponderata sui migliori artisti italiani sensibili al tema dei migranti? Il coinvolgimento di importanti curatori, accademie, gallerie?
Livia Montagnoli
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