Restaurare l’opera di Banksy a Venezia? Ecco perché è giusto

La difesa spregiudicata dell’idea di transitorietà dell’affresco che andrebbe messa in discussione se si vuol vitalizzare l’opera di Banksy. Daniele Nicolosi risponde a Fabiola Naldi sul restauro dell’opera dell’artista in Laguna, promosso da Vittorio Sgarbi

La questione del ‘Banksy di Laguna’ va valutata attentamente e certamente non in modo propagandistico chiamando in causa fattori inadeguati, rischiando di non far comprendere al pubblico interventi apparsi di recente nello spazio urbano. Trovandoci di fronte ad un fenomeno complesso, il “Banksyianesimo”, non si può valutarlo con strumenti arcaici. L’artista-eroe che usa lo spazio urbano per una forma ibrida di manifestazione-arte per comunicare in modo diretto col suo pubblico non ha più senso di esistere dall’estate del 2001.

Il Banksyianesimo

Siamo di fronte ad un fenomeno di eccitazione collettiva assoggettata da un magistrale storytelling, rodato da una decade da un autore o un’equipe che lavora per un autore (bottega?), che si serve di mezzi di propaganda (non li chiamerei medium artistici) per ottenere dei risultati mediatici mai conosciuti prima, su scala globale. La frattura tra l’artista e il suo operato è avvenuta con la diffusione dell’utilizzo del web e dei social networks: l’urban artist che operava in un contesto reale e che grazie al suo anonimato dialogava in modo orizzontale con un pubblico occasionale, tracciando nuovi percorsi nel tessuto cittadino, oggi, ha trasferito il risultato della sua azione sul wall virtale delle bacheche di internet. Con questa nuova fruizione del lavoro, l’artista ha completamente spersonalizzato il contesto in cui opera (se non quel tanto che basta per farlo percepire nell’illustrazione pixelata da divulgare, e avvalorata dal tag di geocalizzazione), con il risultato di uno sbilanciamento tra opera e pubblico e tra autore e pubblico, dove la retroilluminazione dello schermo fa la sua parte in termini di monumentalizzazione, verticalizzazione e musealizzazione. 

Banksy, Heart Boy
Banksy, Heart Boy

Dalla primavera araba a Banksy

Un agire strutturato da ciò da cui il soggetto è agito, antitetico dal “localismo” originario dell’arte urbana. Se nella primavera araba i contestatori di piazza Tahrir si sono esemplarmente serviti di un’agency (Judith Butler) per sensibilizzare in tempo reale l’opinione pubblica occidentale, Banksy sembra se ne serva per un proprio tornaconto personale e poco per aggiungere peculiarità all’opera d’arte, alimentando la sua fama. Le operazioni cultural-commerciali sotto la firma di Banksy (si tenga conto che l’autenticità arriva quando nella pagina ufficiale Instagram dell’autore viene pubblicata la foto-documentazione del lascito) sono fameliche del contesto, fondamentale per dar senso all’immagine che vuole costruire. Quindi, come in questo caso, per parlare dell’innalzamento delle acque e dell’emergenza climatica, quale città migliore se non Venezia, che per criticità legate a queste e ad altre tematiche ambientali è nota alle cronache internazionali tanto quanto, casualmente, la sua importanza globale in termini di kermesse. “Bro, prendo un aereo (ma tanto nessuno lo saprà mai!) e volo a costruire l’operazione a Venice…spritz e successo assicurato!” – dice lui in un ipotetico dialogo al telefono con il suo gallerista Steve Lazarides.

Banksy vs effimero

Oggi che l’intervento del Nostro è “sotto attacco”, non per rimuoverlo, come nel caso della maggior parte delle opere d’arte non-autorizzate in Italia e nel mondo, ma per tutelarlo, leggo che si corre a prendere le difese dell’artista, parteggiando per le (nobili) intenzioni divulgate da Banksy stesso riguardo il suo lavoro, senza un pensiero critico contestualizzato, rientrando a pieno diritto nella categoria di pubblico della storiella perfettamente confezionata a priori da egli stesso (l’opposto del fattore di casualità in cui un’opera di Urban Art dovrebbe rientrare). La concezione dell’effimero nei confronti della maggior parte del suo lavoro, a Venezia (2019) più che a Napoli (2010) per intenderci, va trattato in modo meno convenzionale. Ogni suo graffito è soltanto nei materiali al pari di un altro qualsiasi, ma non è su questo aspetto che si basa l’opera e il rischio che ella possa subire un deterioramento, ma sulla progettazione e buona riuscita di tutta l’operazione. L’effimero in Banksy è Vittorio Sgarbi, che mina alla sua esistenza, preservandolo. L’idea di non-monumento celebrante il caso che l’autore spera di restituirci, dovrebbe porsi su un piano differente, rispetto a quando parliamo di arte urbana direttamente fruita, per essere proporzionato in termini valutativi. In questo specifico caso, ma anche in molti altri esempi di questo autore e non solo, se si vuol parlare di effimero è nella fase organizzativa che andrebbe posto l’accento. È la difesa spregiudicata dell’idea di transitorietà dell’affresco che andrebbe messa in discussione se si vuol vitalizzare l’opera di Banksy, per non ingabbiarla nella filastrocca dell’operazione pensata a priori in cui ci troviamo ogni volta, come da copione. 

Migrant Child di Banksy a Venezia. Photo Lapo Simeoni
Migrant Child di Banksy a Venezia. Photo Lapo Simeoni

Contro lo storytelling

Se volessimo veramente schierarci dalla parte dell’arte effimera, dovremmo non stupirci di tutti gli atti esterni che possono minare all’integrità di un’opera, qualsiasi essi siano; nel caso, come questo, di una modalità 2.0 dell’Arte Urbana, sarebbe corretto, così proseguendo, una valutazione che concepisca fattori di rischio concettuali al pari, se non più, di quelli materici. È pacifico, dopo quasi 8 anni, avere una posizione diversa riguardo al caso di Bologna di Fabio RoversiMonaco. Considerare che l’opera del non più anonimo Robin Gunningham è tutta risolta nella realtà tra rappresentazione e paesaggio riscontra un’incomprensione rispetto a una propensione artistica diversa da quella posta da William Kentridge sugli argini del Tevere a Roma, installazione pensata per scomparire a causa dello smog della capitale, per fare un esempio riuscito. Non mentiamoci, la vera funzione del bambino migrante col fumogeno rosa apposto su una parete di una calle a Venezia è la costruzione di una “web-postcard”, utile ad innescare la miccia per un risultato autoreferenziale. Se per assurdo volessimo schierarci dalla parte di un autore che agisce coerentemente, rispetto ai messaggi che vuole trasmettere (ambientali e transitori, in questo caso), dovremmo sperare che l’opera venga strappata dalla parete e venduta al miglior offerente, meglio in una collezione privata all’estero così da non aggiungere turistificazione di massa a quella già in atto in laguna, e che i ricavati vengano utilizzati per la tutela del paesaggio agognato. Solo così un’operazione di questo tipo raggiungerebbe una riproporzione con la sua ineguagliabile comunicazione. Ma forse i ragionamenti che ho avuto modo di leggere non sono su Banksy e neanche sulla sua opera, meno aulici; se così fosse, ci riscopriremmo noi gli “attivisti” contro l’istituzione, per interposta persona.

Daniele Nicolosi

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Daniele Nicolosi

Daniele Nicolosi

Studia alla facoltà di Disegno Industriale al Politecnico di Milano e contemporaneamente compie un riconosciuto percorso artistico caratterizzato dalle pioneristiche incursioni nei luoghi urbani sul finire degli anni ’90, che lo portano a divenire da subito uno dei protagonisti dell’arte…

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