Affrontare un periodo cruciale della storia dell’arte come quello che va dal Sessantotto ai primi anni Ottanta, caratterizzato da un deciso impegno sociale e politico, con l’intento di far emergere aspetti meno noti e in qualche modo rimossi, legati ai temi della libertà individuale, dell’indipendenza di giudizio, dell’autonomia dei linguaggi artistici: quello che ci indica Giulio Ciavoliello in Fuori dal coro. L’arte libera dalle ideologie al tempo della contestazione, Christian Marinotti Edizioni, è un percorso alternativo alle vie maestre e alle piste battute in quegli anni.
Attraverso una ricognizione puntuale di eventi, opere e testimonianze di artisti, critici e galleristi, fondata su un consistente apparato documentario, possiamo seguire le varie fasi di un’opera di scavo che ci svela un filone rimasto alquanto trascurato dalla storiografia che si è inoltrata dentro la grande miniera dell’arte degli anni Settanta. Ce ne parla l’autore.
Vorrei che ci raccontassi la genesi di questo volume, che contiene, credo di aver capito, tutti saggi inediti. Come sono nate queste riflessioni, sono la rimeditazione di tue impressioni giovanili? Perché hai deciso di pubblicarle in questo momento e perché è importante oggi che questa porzione di storia dell’arte non venga dimenticata?
Il volume è costituito da inediti ma comprende appunti, documenti, immagini, scritti che stanno nel mio computer da una decina d’anni. Ho girato intorno alle questioni affrontate per molto tempo. C’era l’idea di un libro che si è concretizzata solo in seguito all’accordo con un editore. Avevo la necessità di un limite per poter concludere: una scadenza, una quantità di battute e naturalmente un progetto concordato. Così in un anno circa il lavoro ha trovato concretezza editoriale, anno in cui, a seconda dei casi, ho ulteriormente raccolto o tolto, sviluppato, riscritto, scremato per arrivare a ciò che vedi. Il tutto deriva da opere viste, da letture, da discussioni, da pensieri utili a preparare lezioni per un paio di corsi dei miei studenti: una prima volta all’Accademia Albertina, una seconda all’Accademia di Brera.
Raccontaci meglio…
Gli anni Settanta sono stati affrontati ampiamente. In proposito vi è una buona storiografia. Il decennio, come riconosciuto da tutti, è caratterizzato dall’impegno politico e sociale. Ciò che si è quasi sempre tralasciato è un aspetto minoritario di quel periodo, dove al centro sono la libertà dell’artista e l’autonomia dell’arte. Il concetto di libertà è uno dei tre principi della Rivoluzione francese, insieme a quelli di uguaglianza e fratellanza, è anche a fondamento del miglior pensiero anarchico. Eppure, è come se ce lo fossimo lasciato scappare tutto nell’individualismo, nell’eccesso di possibilità del singolo che può agire in assenza di regole, fino al liberismo selvaggio dell’economia che prevale in Occidente e non solo.
Credo che il merito principale di questi saggi, oltre a rifocalizzare l’attenzione su fenomeni e aspetti che rischiano di venire dimenticati, o sottovalutati o tutt’al più dati per scontati e non percepiti nella loro reale devianza, sia quello di operare una sorta di ricongiunzione tra anni Settanta e Ottanta, ovvero tra le estreme e un po’ logorate avanguardie e le insorgenze postmoderniste, tra i richiami all’impegno e l’abbandonarsi al riflusso, di contribuire insomma a una visione teorica e a una ricognizione storica meno manichea di quello snodo cruciale della storia dell’arte nella seconda metà del Novecento…
C’è uno schema pronto che finiamo per condividere tutti. Identifichiamo gli anni Settanta con i valori collettivi e gli anni Ottanta con i valori individuali, i Settanta con l’impegno e gli Ottanta con l’edonismo, i Settanta con gli sforzi di trasformazione sociale, gli Ottanta con il riflusso e la chiusura nel privato. Ma gli schemi sono utili fino a che non impediscono la comprensione di significative sfumature, di aspetti apparentemente secondari che però sono essenziali. Se ci immergiamo nella complessità, se non ci accontentiamo di verità confezionate, se lo spirito critico non disdegna l’autocritica, possiamo spiegare meglio tante cose. Dopo le neoavanguardie la logica dell’espansione, su cui si fondavano, poteva espandersi fino a includere valori derivanti dal passato, forme della memoria, senza cadere nel passatismo. Oggi, parlando del clima e della cultura degli anni Settanta vediamo, per esempio, che il rifiuto di pagare per assistere ai concerti privava chi faceva musica del diritto di vivere del proprio lavoro.
Con quali conseguenze?
Col senno di poi comprendiamo che il radicalismo di alcune posizioni politiche, frutto di irrigidimento ideologico, contribuiva a dare chance a spinte reazionarie, più o meno oscure, per cancellare un disegno di avanzamento progressivo della società italiana basato su un accordo tra forze autenticamente popolari, incarnate principalmente dalla Democrazia Cristiana sul fronte cattolico e dal PCI sul fronte laico.
Eppure, c’era l’esempio di una costruttiva, straordinaria collaborazione, insieme a formazioni più piccole, avvenuta nel momento di scrivere la Costituzione. Ci sono stati i governi di solidarietà nazionale, dettati dall’emergenza, ma non si è più preso in considerazione ciò che avevano in mente Moro e Berlinguer. Dico questo ammettendo che anche io meno che ventenne, nel mio piccolo, pur spinto da alti ideali che avevamo in tanti, concorrevo alla ubriacatura ideologica.
Emergono sul versante della critica figure chiave come Jean-Christophe Ammann, Carla Lonzi e Francesca Alinovi… Quali sono stati i personaggi presenti in questo libro con cui hai avuto più sintonia e dimestichezza o più ti hanno influenzato?
Jean-Christophe Ammann come curatore e direttore di musei per un lungo periodo ha tenuto in gran considerazione l’arte italiana. Come gallerista Paul Maenz ha avuto un atteggiamento analogo. È impossibile ignorare Carla Lonzi per ciò che ha fatto nell’arte e nel femminismo. Non consideriamo abbastanza Francesca Alinovi, che aveva sensibilità per cogliere i fenomeni allo stato nascente e lucidità per guardare lontano. Sono tutte figure di rilievo. Alinovi, meno distante da me sul piano generazionale, è quella che sento di più. Nel suo essere post-ideologica macina idee e forme con libertà e puntualità rare.
Ti soffermi su mostre non proprio note, “controcorrente” rispetto alle mostre del tempo…
Ho messo in evidenza due mostre in particolare, due proposte “aliene”. La prima è Amore mio, nel 1970. In un periodo in cui si proponevano mostre come Arte povera più azioni povere, Vitalità del negativo, Campo urbano, a Montepulciano troviamo una mostra che sin dal titolo non è nello spirito del tempo. L’attenzione è deviata in un campo sentimentale, sul sentire individuale. Si crea una bolla, fatta di opere interessanti di protagonisti dell’arte emergente o da poco emersa sulla scena artistica, in cui si prescinde da ciò che accade nel mondo intorno, in un periodo caldo come il Sessantotto e gli anni subito a seguire.
La seconda?
È Aptico. Il senso della scultura, nel 1976, quando la Biennale è incentrata su Ambiente, Partecipazione, Strutture culturali. Nel momento in cui è diffusa la smaterializzazione dell’arte, nella mostra a Verbania si pone al centro la tattilità della forma. A Venezia troviamo una relazione con l’ambiente fisicamente e socialmente inteso, nella cittadina piemontese la mostra si struttura su riferimenti alla storia. E anche qui vi è un ignorare il presente, una noncuranza per l’attualità. Sia Amore mio che Aptico sono il prodotto di comunità temporanee costituite spontaneamente, prescindendo da una figura esterna come quella del curatore. E non hanno niente a che vedere con i collettivi, con i gruppi che al tempo operavano numerosi.
Alla fine del libro troviamo un ampio corredo documentario, come sei riuscito a metterlo insieme?
Quell’elenco di titoli che compone Documenti – sembrerà strano – per me è la sua parte più importante. È fatta con il bilancino. Inizia nel 1966 con Rapporto 60 di Maurizio Fagiolo dell’Arco, che è la prima pubblicazione italiana realizzata in un nuovo spirito corrispondente al nuovo spirito che aleggiava nell’arte, nelle mostre, negli spazi che le accoglievano. Si chiude, anche se non sono gli unici titoli riportati del 1984, con due pubblicazioni postume di Francesca Alinovi, L’arte mia, che è una raccolta di suoi scritti, e il catalogo della mostra Arte di frontiera, una sua concezione che non aveva potuto seguire perché venuta a mancare. In mezzo, anno per anno ci sono, fra gli altri, quei documenti scritti da cui sono tratte le parole utilizzate, evidenziate dal corsivo, per dare sviluppo agli argomenti trattati, parole espresse da artisti e intellettuali protagonisti delle vicende affrontate nel libro.
Alberto Mugnaini
Giulio Ciavoliello, Fuori dal coro. L’arte libera dalle ideologie al tempo della contestazione. Christian Marinotti Edizioni, 2023.
Pag. 176, euro 22.00
ISBN 978-88-8273-186-1
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