Oltre il visibile. Kazuko Miyamoto in mostra a Napoli
La mostra dell’artista giapponese al museo Madre è una danza percettiva in cui la retina si fonde con lo spirito, perdendosi in altre dimensioni
È possibile rintracciare un’olistica ricerca di fusione ed equilibrio, nel lavoro di Kazuko Miyamoto (Tokyo, 1942). Una ricerca che, tra spirito e corpo, intangibile e tangibile, astratto e organico, va ben oltre la – pur presente – necessità di mediazione culturale tra la tradizione contemplativa orientale delle sue origini, e la propensione iper-razionalizzante dell’Occidente in cui è artisticamente maturata. La dinamica espositiva infusa da Eva Fabbris, al suo primo statement curatoriale come direttrice del Madre, sembra del resto riflettere – in semantica aderenza del significante col significato – proprio il medesimo disinnescare e sabotare la rigidità della struttura che l’artista adopera nei suoi lavori. Dopo un iniziale percorso cronologico, infatti, l’itinerario viene “riscaldato” costantemente con vetrofanie di foto d’archivio dell’autrice, che ce la presentano “occhi negli occhi”; inoltre, il piano ulteriore della mostra pone in dialogo opere di epoche differenti, esplorandone le sottostanti assonanze e la comune vitalità stilistica. “Vitalismo geometrico” è non a caso proprio l’ossimoro risvegliato dalle opere principali di Miyamoto, le String Constructions. Effimere cattedrali di spago, lievi quanto sostanziose nella geometria, derivate dalle esperienze dell’Optical e di Sol Lewitt. Che però, come nei frattali e nel minimalismo musicale di Steve Reich, si rivelano solo occasione e cellula generativa di un vero organicismo percettivo.
La mostra di Kazuko Miyamoto a Napoli
Gli occhi perdono il fuoco in tridimensionalità irreali che si confondono con quelle concrete, infiniti paesaggi e suggestioni ottiche virtuali interrogano lo spirito e l’inferenza soggettiva dell’osservatore, molto più di quanto il punto di partenza geometrico causerebbe. Ben oltre ogni assonanza apparente con l’arte programmata, e più similmente all’uso di percezione e illusione in Olafur Eliasson. Cartesianità che, infatti, è solo punto di inizio: geometria vitalistica non esatta, imprecisioni e biologismi voluti sabotano la rigidità, prendendo dalla forma solo le leggi matematiche di accrescimento, dialogando ad esempio col respiro dell’autrice in Archway to cellar, o con luce, ore e ombre nella String Construction del 1973 per la caffetteria del personale del MoMA di New York. Le evocazioni tattili e organiche sono sinergiche con l’esplorazione dei confini energetici e concreti del corpo, e in tal senso assumono significato ulteriore in mostra anche i lavori testimonianti il dialogo performativo dell’artista con l’ambiente urbano e naturale, in alcune azioni al margine con land e urban art. Così come le sue riflessioni antropologiche su simboli e archetipi tipici di Giappone (il kimono, uno su tutti) ed Occidente sembrano ricucirne, più che distanziarne, i comuni presupposti spirituali e filosofici di essenzialità, al di là di ogni barriera. Approdando, nella ricerca di Miyamoto come nel percorso curatoriale dell’esposizione, a strutture che aprono e sostengono movimenti e misteri, piuttosto che innalzare conclusioni e barriere, all’inarrestabile respiro dell’arte. O – come anche Kandinskij insegna – allo spirituale nell’arte.
Diana Gianquitto
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