L’arte contemporanea in mostra alla scuola media. Sara Montani espone al “Rinascita A. Livi” di Milano
Si intitola “Abito l’abito” la mostra in corso presso l’istituto milanese che, dal 2014, invita gli artisti a esporre nel corridoio della scuola. Coinvolgendo gli studenti in attività e laboratori
Per tre mesi le opere dell’artista Sara Montani saranno lo scenario quotidiano degli allievi della scuola Rinascita A. Livi di Milano. La mostra è parte del progetto Galleria delle lavagne, che educa gli studenti al linguaggio contemporaneo grazie a incontri con artisti e laboratori per coltivare una comunità capace di interrogare e mettere in questione l’arte visiva. La ricerca di Sara Montani spazia tra vari media: acquaforte, monotipo, cianotipia, pittura, il cui filo rosso è uno sguardo che preserva la memoria del passato prossimo attraverso abiti carichi di storie recuperate e trasformate in matrici calcografiche. Durante l’opening, gli alunni di Laboradio – laboratorio volto alla realizzazione di podcast attraverso i ruoli di una redazione radiofonica – hanno “interrogato” l’artista. Riportiamo uno stralcio dell’intervista che è possibile ascoltare integralmente sul sito della scuola.
Intervista all’artista Sara Montani
Come è nata l’idea di questa mostra?
Nel 2010 ho messo in pratica per la prima volta nella scuola primaria dell’istituto comprensivo di via Palmieri il progetto da me ideato Galleria delle lavagne, con l’intento di creare un ponte tra gli alunni della scuola e gli artisti del panorama contemporaneo. Per cinque anni sono stati ospitati diversi artisti, provenienti da diverse regioni italiane e sono stati sperimentati svariati linguaggi espressivi, grazie a numerosi laboratori. Tra gli altri mi è capitato di ospitare anche la professoressa Carla Zaffaroni che ha poi mutuato il progetto Galleria delle lavagne portandolo avanti nella scuola dove tuttora insegna. Questa volta sono io a essere ospitata e ho raccolto l’invito con molto piacere.
In che modo un abito riesce a raccontare una storia?
L’abito racconta una storia nella sua forma. Quando un abito è strappato, mi suggerisce di pensare a che cosa sia successo, perché sia così ridotto e quindi alla vita che ha avuto, ma non solo, a chi l’ha indossato, che cosa ha provato quella persona e l’uso che ne faceva. Prendiamo un grembiule da cucina: nel passato questo si poneva davanti al vestito della festa. Una volta, infatti, esisteva l’abito della domenica, e le mamme e le nonne indossavano il grembiule per proteggerlo. Spesso con il grembiule, come fosse una sacca, raccoglievano la verdura o addirittura, quando un bimbo piangeva, lo usavano per asciugare i suoi occhi. Oggi le mamme non lo usano quasi più perché gli usi degli abiti sono cambiati; quindi gli indumenti raccontano una storia in virtù delle persone che li hanno indossati, in virtù degli anni che hanno gli abiti stessi e in virtù della loro forma.
Quando ha iniziato a esporre le sue opere?
Nel 1970 avevo diciannove anni e feci la prima mostra insieme a quattro compagni di scuola. Allora non lavoravo con gli abiti, ma sperimentavo con una tecnica materica volta a presentare parti più o meno sporgenti e in rilievo. Una curiosità che mi stupisce è che all’inizio della mia ricerca inserivo nelle mie opere una chiave, una conchiglia o una foglia che permettessero all’opera di avere delle parti aggettanti. Tali elementi diventavano parte dell’opera, ma più avanti nel tempo conchiglie e chiavi sono sparite per permettere all’oggetto di farsi opera, così la camicetta, che avete modo di vedere in mostra, è diventata “La mia Africa”.
Cosa intende lei per educazione all’arte?
Educare vuol dire consentire a un ragazzo di esprimersi, vuol dire non solo mettere dentro in un vaso, in un contenitore, tante idee, ma consentire a questo vaso di mescolare queste idee e di farle uscire in modo nuovo. In tal senso educare vuol dire consentire a un ragazzo di avere le sue idee e di esprimerle con il linguaggio che meglio sente proprio, che poi è il lavoro che fa l’artista: parlare con i linguaggi che gli si confanno.
Quali messaggi vuole esprimere tramite le sue opere?
Direi che i messaggi che cerco di esprimere sono tanti. Sono di diverso tipo ogni volta: hanno perlopiù un significato sociale. Un argomento che mi ha catturato molto in questi ultimi anni è stato la ricerca sui diritti dell’uomo. L’incontro con ciò che manifesta appunto la Dichiarazione Universale sui Diritti, quindi la donna, la famiglia, l’infanzia, il gioco, il diritto al gioco… Sono argomenti che ho cercato di rappresentare attraverso opere realizzate con tecniche diverse. Ad esempio, riguardo la donna, ricordo un lavoro che si intitola Straccio di donna: una mia amica mi aveva regalato un sacco pieno di stracci per pulire le lastre di incisione e fra questi trovai il resto di una camicia ricamata di fine Ottocento. Quello “straccio” mi sembrava che raccontasse di più dell’essere meramente uno straccio, mi sembrava che avesse la forza di narrare la storia della persona che l’aveva indossato, ma anche di quella donna che aveva ricamato la camicia con tanta pazienza e cura. Decisi così di valorizzarlo e creare un collegamento tra quella pezza di stoffa e la donna d’oggi – quella donna che viene usata e abusata – fermando lo scampolo con la resina affinché avesse ancora la sembianza di donna.
Martina Lolli
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