Tra il visibile e l’invisibile. L’artista Gego in mostra al Guggenheim di Bilbao
Il museo d’arte contemporanea basco presenta una retrospettiva dedicata all’artista tedesco – venezuelana Gertrud Goldschmidt (nota anche come Gego) e al suo particolare approccio alle forme e all’astrazione
“Per sua stessa definizione l’infinito non si può misurare, giacché gli esseri umani e le macchine praticano un numero finito di operazioni”. Un paradosso che, agli occhi dell’artista Gertrud Goldschmid (Amburgo, 1912 – Caracas 1994), aveva assunto una fascinazione tale da portare la sua ricerca ad approfondire tutte le questioni legate allo spazio.
Sperimentazioni e intuizioni che tornano oggi al Museo Guggenheim di Bilbao con la mostra Gego. Misurare l’infinito, a cura di Geannine Gutiérrez-Guimarães. Sculture, installazioni, disegni, libri d’artista, opere tessili e progetti pubblici restituiscono al pubblico un ritratto dell’artista tedesco -venezuelana che ha sviluppato un’arte profondamente individuale.
Gertrud Goldschmid, in arte Gego. La vita
Meglio nota come Gego, l’artista tedesco-venezuelana giunge al sommo talento dagli anni Cinquanta, portando avanti un approccio innovativo che arriva a scardinare le regole dettate dalla scultura in quanto oggetto tridimensionale di materia solida.
Ingegnere razionale con una spiccata intelligenza matematica e una formazione da architetto, Gertrud definisce nel tempo una ricerca che si sviluppa in Venezuela quando, intorno alla metà XX secolo, fugge dall’Olocausto. Misurandosi inizialmente con le tecniche di costruzione, iniziò a collaborare con diversi studi di architettura a Caracas per poi dedicarsi completamente al mondo dell’arte. Come artista ha attinto alla sua conoscenza tecnica delle forme e dello spazio, dapprima elaborando paesaggi semi-astratti con la tecnica dell’acquarello per poi spostarsi successivamente verso scenari più astratti, attraverso la tecnica del monotipo, dell’incisione, della xilografia e della serigrafia. I disegni astratti di Gego erano strutturati sull’idea della ripetizione di linee parallele, in grado di produrre una vibrazione visiva. Anche con la litografia riesce a indagare le transizioni tra linea, forma e spazio.
Le sculture di questo periodo seguono gli stessi principi e, verso la fine degli anni Sessanta, diventano strutture geometriche a griglia che si modulano e mutano attraverso il processo di assemblaggio manuale realizzate con filo piegato a mano dalla stessa artista.
Nascono così le opere più rappresentative, come Reticulárea del 1969. Si tratta di installazioni immersive composte da elementi modulari triangolari di dimensioni variabili. Dagli anni Settanta l’artista sperimenta reticoli a maglia quadrata, tronchi e sfere fino ai successivi Disegni senza carta (1976-1988) che segnano un’altra svolta nella sua produzione. Destinati ad essere appesi direttamente sul muro sono realizzati con materiali di poco valore, quali fili, cavi, viti e pulsanti di scarto, spesso arrugginiti, e giocano sulla condizione interstiziale tra disegno e scultura, rendendo l’ombra proiettata parte dell’opera. Alla fine degli anni Ottanta cerca la dissoluzione della forma con la serie Bichos, sviluppando assemblaggi più caotici su piccola scala composti da materiali riciclati e di scarto.
Le ultime opere denominate Tejeduras sono realizzate con carta intrecciata, pagine di riviste e brochure commerciali e riassumono le preoccupazioni formali, strutturali e concettuali predominanti in tutta la sua produzione.
Gego. Misurare l’infinito al Museo Guggenheim di Bilbao. Parola alla curatrice
“Malgrado la sua forte presenza in America Latina e soprattutto in Venezuela, è meno conosciuta negli Stati Uniti e in Europa”, spiega ad Artribune Gutiérrez-Guimarães.“Succede che per varie ragioni una ricerca artistica non finisca sotto i riflettori. Tante donne che rientrano nel panorama dell’arte del Ventesimo secolo sono dimenticate. Per questo penso che la nostra responsabilità di curatori e storici dell’arte sia quella di raccontare queste storie. Attraverso i programmi che organizziamo siamo in grado di far conoscere artiste come lei che meritano una maggiore popolarità e che si rivelano indispensabili proprio per comprendere il mondo dell’arte e il loro contributo nella Storia dell’Arte”.
Analizzando la sua complessa e multiforme produzione è possibile rintracciare elementi che sembrano esplorare l’idea del radicamento, della relazione con il luogo, ma anche della mutazione della forma, probabilmente riconducibile al trasferimento in Venezuela nel 1939 causato dalle persecuzioni naziste.“Ogni persona o artista che sia stato sfollato per via della guerra e che cerca di ricominciare da un’altra parte, incontra delle difficoltà”, continua la curatrice.“Questo ha naturalmente un fortissimo impatto sulla propria vita e sulla propria carriera. Come artista sfollata, immigrata e donna straniera in un nuovo paese del quale non conosceva la lingua e la cultura, ha dovuto affidarsi alle sue conoscenze, soprattutto alla sua laurea in Architettura e Ingegneria. Questo fu molto importante perché poté sfruttare questa istruzione diventando un architetto freelance. Nei suoi primi anni in Venezuela, fino alla fine degli anni Quaranta, riuscì a stabilizzare la sua posizione. Credo che solo allora, a quarantuno anni, abbia deciso di reinventarsi diventando un’artista. Questo cambio di prospettiva, secondo me, è potuto accadere soltanto attraverso la traiettoria che ha vissuto, incluso il fatto di essere stata una persona sfollata durante la guerra. Tutto ciò è molto importante per capire lei e la sua realizzazione”.
La Fondazione Gego. Parola ai direttori Tomás e Barbara Gunz, figli dell’artista
Dopo la morte dell’artista nel 1994, la sua famiglia ha dato vita alla Fondazione Gego, il cui obiettivo è conservare, studiare e preservare l’eredità della madre.
“Quando abbiamo iniziato, tutti facevano altro, o avevano un lavoro o non avevano tempo. C’erano solo due persone che si occupano dell’organizzazione” spiegano ad Artribune Tomás e Barbara Gunz. “Non pensavamo di mostrare queste opere in tutto il mondo. Abbiamo deciso che avremmo mostrato il suo lavoro ma ci è voluto tanto tempo prima di arrivare a definire come lo avremmo mostrato, a chi e dove”.
Donatella Giordano
Alessandra Rantucci (traduttrice)
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