L’opera d’arte non fa cronaca. Qual è il suo compito in tempi così complessi
L’opera d’arte non deve essere prigioniera dell’aut aut: può, e deve, appartenere all’e-e, può e deve essere sia una cosa che l’altra. L’opera d’arte non risponde a domande, ma deve continuare a domandare
L’articolo pubblicato il 2 novembre parlava della “frattura tra l’arte del mio tempo e il mio tempo”: alcuni mi hanno scritto per dirmi che condividono quella riflessione; altri, in particolare un critico in una chat, ha obiettato sostanzialmente che l’arte non è cronaca, e che nei giorni scorsi a Torino, in occasione della fiera, si respirava un bel clima per l’arte.
Mi fa piacere; e, naturalmente, l’arte non è cronaca.
Mi sembra però significativo che, in relazione allo scollamento percepito (e ripeto ancora una volta: magari sono solo io ad avere questa sensazione…) tra arte e realtà quotidiana, si tiri in ballo una fiera per dimostrare che l’arte contemporanea gode di ottima salute.
Il rapporto tra arte e cornice
Cioè, viene ribadita ancora una volta la “cornice” che forse rappresenta il problema principale, il nucleo di questo stesso scollamento. Ciò che trovo sorprendente, nella maggioranza delle opere del mio tempo, è la non-volontà di mettere in discussione proprio questa cornice in cui è inserita; proprio nel momento in cui, da più parti, questa operazione di “sfondamento” viene compiuta anche in modo ingenuo ed elementare, e diventa in qualche modo una delle cifre possibili della nostra epoca (come giustamente sottolinea Marcello Faletra a proposito dell’attivismo nei musei)
Ovvio, l’opera non deve parlare della guerra, o dei traumi collettivi che stiamo vivendo e attraversando (o meglio, che ci stanno attraversando) in questi anni: così si ricade inevitabilmente nel territorio della retorica, della didascalia, e della noia. Ma, al tempo stesso, l’opera d’arte non deve per forza appartenere al terreno della cronaca, oppure ricadere ancora e ancora nel recinto in cui si è confinata. Non deve cioè essere prigioniera dell’o-o, dell’aut aut, come in effetti accade oggi: l’opera può, e deve, appartenere all’e-e, può e deve essere sia una cosa che l’altra. Non deve quindi rispondere a delle domande, ma continuare a domandare.
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Cosa deve fare un’opera d’arte
Quindi non parla di un ‘tema’, ma lo vive, lo attraversa, ne fa esperienza: diventa cioè il suo tempo, e costruisce quello prossimo. “The only way out is through” (Robert Frost). Quanto di più lontano ci possa essere rispetto alla “descrizione”. Il compito più importante che può svolgere qualcosa come l’opera, che per definizione non ammette compiti, è di eliminare filtro dopo filtro, strato dopo strato di propaganda, finzione dopo finzione, e farci accedere a quel nucleo di verità che è sempre ambiguo e ambivalente.
E che contraddice questa voglia matta di unilateralità, di “fatti” (o-o) che il nostro presente pare alimentare costantemente, e disperatamente.
Comprendere l’altro vuol dire essere l’altro senza identificarci con l’altro, assumere il punto di vista dell’altro senza necessariamente condividerlo, osservare cioè i fenomeni da più angolazioni conservando la propria posizione – e questo solo l’opera è in grado di farlo.
Così come è in grado di scavare in profondità e di dissotterrare, sotto i cumuli di ipocrisia delle nostre società, le radici del dolore collettivo. Vale la pena di riprendere la citazione dal monumentale Il confine di Don Winslow con cui si chiudeva lo scorso articolo: “…la corruzione non riguarda solo il denaro, va più in profondità. Dobbiamo porci una domanda: che tipo di corruzione esiste qui, nella nostra anima nazionale collettiva, che ci rende i più grandi consumatori al mondo di droghe illegali, a un tasso che eccede di cinque volte il numero totale della popolazione? Possiamo dire che le radici dell’epidemia di eroina si trovano sul suono messicano, ma gli oppiacei sono sempre una risposta al dolore. Qual è il dolore di cui soffre la società americana, che ci spinge a cercare droghe in grado di attenuarlo? È la povertà? L’ingiustizia? L’isolamento?”
La metafora del mondo contemporaneo secondo Don Winslow
Per Winslow il narcotraffico è una grande metafora del mondo contemporaneo; le droghe, cioè, sono solo un indicatore, un sintomo e non la causa di un problema molto più complesso, e che chiama in causa il funzionamento stesso dell’intera società, la sua struttura per così dire. Usando la sua prospettiva, che tipo di sofferenza collettiva – o di anestesia della sofferenza collettiva – ci impone di accettare e pretendere che l’arte sia separata rispetto a tutto ciò che la e ci circonda, che l’arte sia una cosa diversa, e non la stessa cosa rispetto alla vita con i suoi drammi e le sue chiusure e le sue aperture?
Christian Caliandro
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Christian Caliandro
Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…