Ecco perché il critico d’arte non dovrebbe far comunella con gli artisti
Si sostiene che critici e artisti dovrebbero avvicinarsi di più, stare più ‘insieme’. Ma a mancare oggi è l’opposto: la voce di una critica autonoma rispetto al fatto artistico
Finalmente si parla di critica – di critica e arte contemporanea. E quindi delle problematiche che affliggono questa sfera dell’attività culturale. È un bel tema. Infatti, se ne discute tanto ma se ne scrive poco, pochissimo. Segno che la questione è viva, al punto da essere anche un po’ un tabù. Insomma: era ora.
La questione della critica d’arte in Italia
Solo che c’è un però. Questo, che anziché lamentarsi della penuria di scritti sferzanti e rinfrescanti – mission peculiare della critica –, si tende a sostenere qualcos’altro: che ci vorrebbe più prossimità tra critici e artisti; che a minare sviluppi virtuosi in quest’ambito ci sarebbero impedimenti di carattere relazionale, in particolare nei rapporti tra questi due soggetti. Sicché, ecco la panacea: critici, artisti, avvicinatevi di più, confrontatevi di più, state più ‘insieme’. Ma è una chiave di lettura che non tiene. Di più: che poggia su una narrazione che capovolge il dato di realtà. Infatti, le cose non stanno così, ma all’opposto. Vediamo perché.
Una premessa intanto. La figura del curatore ha ormai una storia e una sua ragion d’essere.
Non si sta parlando di un usurpatore di funzioni, o di un turista nel mondo dell’arte. Da Haarald Szeeman in poi le cose sono cambiate, e non sempre in negativo. Che poi la figura del ‘curator’ abbia subito nel tempo un’involuzione e una volgarizzazione, fino ad assumere sembianze e posture più prossime a quelle di un presentatore tv, che a quelle di un serio esperto, ciò non rileva sul piano teorico. Non dobbiamo buttare il bambino con l’acqua sporca, come si dice. Questo va chiarito, altrimenti si fa del rozzo qualunquismo, che non giova.
Cosa fa il curatore
Ma soprattutto, il curatore è egli stesso un prodotto della critica. Anzi, di una tendenza – epocale – della critica fondata proprio sul paradigma della prossimità, dell’interoperatività con l’artista, dello stare ‘insieme’. E qui la logica dovrebbe venirci in soccorso. Nel senso che se il curatore ha preso il sopravvento è perché attraverso di lui lo ha fatto quel paradigma. Il quale è diventato, in effetti, nel tempo, dogma e diktat. Il problema allora non è che manchi tutto ciò, ma l’opposto, è che tale impostazione è stata adottata dalla critica in misura eccessiva, totalizzante. Il che ha finito col marginalizzare, e inibire, una critica più distaccata, autonoma rispetto al fatto artistico; una critica che ‘pratica’ non è. La quale, infatti, non dà segni di vita, o ne dà pochi. Ed è un peccato, perché la sensazione è che servirebbe come il pane. Di certo se ne avverte la mancanza.
In effetti è così, altro che distanza, da tempo la critica è settata – tutta o quasi – sui presupposti della prossimità e del coinvolgimento diretto. Anche nel concreto, suvvia, non si può certo dire che critici e artisti vivano su pianeti differenti, o che se ne stiano arroccati nei rispettivi ruoli. Tutt’altro: si sono avvicinati, affiancati, persino ibridati. Probabilmente l’epoca presente è, tra tutte, quella in cui c’è più interoperatività tra critici e artisti. Anche in termini di feedback, ciò trova riscontro nella realtà. Basti pensare che il critico più propenso a scrivere che a intervenire direttamente nella pratica artistica ormai è visto come un panda, o un alieno.
Per carità, è rispettato, ma – appunto – come si rispettano un panda o un alieno.
La necessità di una critica autonoma
Tutto questo per dire che non di un booster di ulteriore affiatamento tra critici e artisti c’è bisogno, ma d’altro. Di cosa? Beh, del risveglio di una critica autonoma, valutativa, spigliata. E, perché no, anche appartata. Perché un minimo di distanza – appunto – critica rispetto all’oggetto artistico non è detto sia un male, anzi. C’è vita oltre il dogma della simbiosi.
Detto ciò, sia chiaro, e a scanso di equivoci: abbasso la torre d’avorio. Sia lode al percorrere ‘insieme’ tragitti di mutuo accrescimento. Ma up to a point, sempre nella consapevolezza che un clima vivace e di interscambio non dev’essere un fare comunella. Anche perché l’artista ha più da guadagnare da un serio giudizio distaccato, che da una bevuta in compagnia con annesse calorose pacche sulle spalle – specialità in cui, ammettiamolo, a queste latitudini si è maestri indiscussi. E a pensarci chissà quante visioni, e quanta originalità, saranno state annacquate in questi anni da un can can sfiancante di relazioni, sovente parso obbligato.
Ovviamente ci saranno obiezioni a quanto qui si va affermando, ed è facile immaginarlo, intorno a un punto in particolare. Questo. Si dirà: la critica è comunque attiva, ma in altre forme, più rabdomantiche e fattive. Il che non è accettabile come punto di vista, perché non basta il critico in action, o come consulente, o anche come dominus, rispetto al fatto artistico. No, occorre anche altro: il suo mettere bocca quando non è parte in causa, gli scritti pungenti e corroboranti che solo la critica può produrre. Si tratta di peculiarità, che in quanto tali hanno un peso, anche in termini politici ed etici. Sì, perché politico è l’amor di parresìa, di limpidezza del dibattito; e perché educativo – quindi etico al massimo grado – è il giudizio critico esplicitato, il quale educa alla presa di posizione, e di riflesso al rispetto della presa di posizione.
La critica d’arte: da Carla Lonzi a Baudelaire
Da dove ripartire quindi? Beh, intanto dal rendersi conto di due cose. La prima è che l’idea di prescindere dalla critica è fallita. L’altra è che il grande assente di questi anni è stato lui, lo scritto – lo scritto che smuove. Questo manca, non altro! Perché nelle cose della cultura contano le parole, e i giudizi esplicitati, non solo le ‘pratiche’. Senza scritti pugnaci, senza una critica eloquente e appassionata non inorridirebbe solo Baudelaire. Pure Pasolini darebbe di matto se i suoi quadri e disegni non venissero setacciati da scritti fulminanti, invece che da testi pieni di circonlocuzioni. Oggi, ne siamo convinti, persino Carla Lonzi – che sulla critica è stata durissima –, considerato come poi sono andate le cose, tiferebbe per il risveglio di una critica seria, pungente, inflessibile.
E poi bisogna essere utopisti, almeno un po’! E in un mondo ideale ci sarebbero eccome, anche nell’arte contemporanea, iPiero Scaruffi, i Paolo Mereghetti, gli Aldo Grasso. E con loro ci sarebbero le recensioni, che non è vero che non servono: non servono se sembrano scritte utilizzando l’intelligenza artificiale – e qui non ci piove, la pubblicistica d’arte in questo ha precorso i tempi. Ma ora stop. Perché l’aria sta cambiando. Escono libri, si pubblicano scritti meno melliflui. Ne stanno succedendo di cose, quindi è il momento di darsi una svegliata. E allora: la critica reclama la sua autonomia? Rivendica un raggio d’azione più ampio in considerazione delle sue competenze? Ascoltiamola.
Pericle Guaglianone
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