Un’opera d’arte non ha bisogno di un messaggio da comunicare. È un segreto da decifrare
L’opera che si comporta e che si atteggia come una pubblicità ha un bisogno vitale di stabilire una distanza e non può essere coinvolta nella realtà
“…è il rumore di te che stai crepando… prigioniero dei tuoi algoritmi di autoconferma e autocostrizione, che permettono a Google, Facebook, Twitter e Amazon di incatenarti psichicamente ingozzandoti di una versione di te stesso monodimensionale da far cagare, ma che tu abbracci in quanto unica affermazione in offerta… questi sono i tuoi amici… questi sono i tuoi soci… questi sono i tuoi nemici… questa è la tua vita…” (Irvine Welsh, Morto che cammina, Guanda 2019, p. 18).
Quando diciamo che l’opera d’arte “non deve parlare” di alcunché – un tema, un problema, un trauma, l’attualità – stiamo dicendo una cosa banale, ovvia, che però evidentemente così ovvia non è.
Tento di spiegarlo, e di spiegarmi, meglio.
“Parlare di” identifica una postura in cui l’opera, e quindi il suo autore/autrice, si pone all’esterno, totalmente al di fuori rispetto a ciò che stiamo vivendo. Cioè io posso parlare della guerra, dell’antropocene, della giustizia sociale, dell’ecologia alla stessa maniera. Nello stesso modo, indifferente. Il che è legittimo, per carità, se stiamo facendo una discussione o articolando una dichiarazione: ma non per un’opera.
La distanza di sicurezza tra opera e spettatore
Voglio dire che l’opera non parla-di perché non è all’esterno: se è tale, se funziona, è invece completamente all’interno, quindi coinvolta nella realtà. Vive di questa realtà come facciamo noi, e quindi non c’è alcuna ragione perché si ponga fuori, a distanza di sicurezza per così dire. Esiste ed è fatta dello stesso tessuto di questa realtà, ha in comune con essa e con il tempo che la genera gli elementi di fondo.
Questa faccenda della distanza di sicurezza è secondo me abbastanza centrale, in questo momento storico: ha a che fare, per esempio, con la questione dell’o-o. La costrizione cioè abbastanza evidente a cui vengono sottoposte oggi persone, idee, e quindi anche opere, di essere o una cosa o un’altra, di essere o in un modo o in un altro. Di rientrare in una precisa categoria (di consumo, ma anche di identità), per essere riconoscibili. Costrizione che è la funzione principale del controllo…
Più mi addentro nella questione, più mi rendo conto che un discorso del genere contraddice le ragioni di fondo, strutturali, della cultura postpostmoderna (e quanti post- saranno quelli giusti? Quand’è che basta? Quanti neoneo- ci vogliono per arrivare alla conclusione che non è più ‘nuovo’ ma ‘stravecchio’, ‘decrepito’? quanto ci vuole prima di accettare che post- non indica più un dopo, ma solo un’estenuazione?). Cioè il fatto, per esempio, che le opere (non tutte, chiaro) si comportano così perché così è espressamente richiesto: non dire troppe cose insieme, basta un messaggio forte e chiaro. Un messaggio.
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Il messaggio nell’opera d’arte
(Un messaggio: come se l’opera fosse, o potesse essere, un cartellone. Una pubblicità. L’opera che si comporta e che si atteggia come una pubblicità ha un bisogno vitale di stabilire una distanza e non può essere coinvolta nella realtà, a. perché sta vendendo se stessa, costantemente; b. perché se si facesse coinvolgere troppo, non potrebbe spingere quei pulsanti di ‘autoconferma’ e di ‘autoindulgenza’ che sono strettamente necessari alla sua affermazione.)
Precisamente l’opposto quindi di ciò che fa un’opera, che non dice proprio niente – tantomeno messaggi – ma sta lì, come una pietra, come un atomo, come un buco nero. Come un segreto da decifrare. Come una complessità ineliminabile, che però ha la preziosa funzione di un modello possibile e differente per esistere, e la funzione ancora più preziosa di un sostegno alla sopravvivenza.
Arte e politica
Qualcosa che, per definizione, non ha niente a che vedere con i temi da trattare e da affrontare, o con i dibattiti. Per dire: certamente, in questa fase, sarà molto più politico, autenticamente politico, un lavoro che non ne ha l’apparenza, rispetto a un altro che si presenta orgogliosamente come tale. E il suo essere politico consisterà in gran parte nella sua capacità di farsi riconoscere come tale grazie alla sua ambiguità, a causa di essa, e non nonostante essa.
Tra l’altro – ma questo aspetto ovviamente va affrontato in un altro momento – ho la sensazione piuttosto netta che un’arte scadente, piatta, autoindulgente, poco affezionata alle sfumature e tutta urlata non solo dipenda da tempi confusi e violenti, ma che ne sia in qualche strano, oscuro modo una delle cause nascoste.
“Godiamoci i benefici del neoliberismo, prima che va a culo, facendoci finalmente scoppiare sotto i piedi questo sventurato pianeta. Abbiamo una perfetta sintesi del meglio assoluto del libero mercato e del socialismo, proprio qui nei nostri telefoni!” (Simon Williamson-Sick Boy, in Morto che cammina, cit., p. 56).
Christian Caliandro
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Christian Caliandro
Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…