Storie di pelle. Zoè Gruni in mostra a Firenze
Biodiversità e questioni di genere sono al centro della pratica di Zoè Gruni, in mostra alla galleria Il Ponte con un corpus di opere nato dalle sue esperienze in Brasile
Intima e crudele. Sono ben poche le personalità artistiche del panorama attuale capaci di conciliare la realtà quotidiana personale con la propria ricerca espressiva, scavalcando con sudata prestanza gli ostacolanti cliché da ordinario artista-attivista. La mostra di Zoè Gruni (Pistoia, 1982), Motherboard, presso la galleria Il Ponte di Firenze, alterna piacevoli contrasti sentimentali e sociali, in una sorta di restituzione diaristica di un percorso artistico maturato in quasi dieci anni (2012-2020) trascorsi in Brasile, territorio ricco di stimoli e simbologie peculiari per il suo campo d’indagine. Già nei primi passi mossi da Pistoia, terra d’origine e di prima formazione, alla vicina Firenze dove si laurea all’Accademia di Belle Arti, Gruni manifesta un interesse esplicito per la biodiversità e le identità di genere, utilizzando il proprio corpo come veicolo dialettico per offrire al pubblico un buon grado di consapevolezza ontologica e fisiologica: i suoi primi lavori maturi come Scalpo (2009) o Metacorpo (2009) segnavano già una traccia solida nel saper mediare l’anatomia, tramite il video, la performance, o l’installazione, verso uno studio specifico del postumano, senza comunque perdere l’occasione di una riflessione personale e di individualità espressiva.
La mostra di Zoè Gruni a Firenze
Motherboard, la “scheda madre”, giunge, dunque, dopo un percorso di ricerca dell’altro e di ricerca del sé, con un’esperienza oltreoceano in memoria e una maternità accresciuta nel percorso.
Le fotografie insieme al figlio, ritoccate pittoricamente a mano, come usa l’artista in diverse occasioni, trasfigurano i corpi e le narrative possibili, ma non alterano sentimentalmente e semanticamente i soggetti e il loro rapporto: perfino sotto le sembianze di Medusa e di un ipotetico giovane Perseo, il significato e l’atmosfera sono benevoli, proficui, anche se gli sguardi non si incrociano mai, in quanto la Gruni-Gorgone si fa carico di rappresentare la tradizione e la fermezza, talvolta doverosamente rigida come pietra (verrebbe da dire “accademica”), benché il ruolo motiva la volontà di cambiamento, di novità, di scoperta del giovane Libero-Perseo, equipaggiato di orpelli estetici per affrontare il futuro.
Non ultimi, i due video proposti in galleria: Fromoso (2019/2020, riprese di Lyana Peck, montaggio di Naiara Azevedo, sonoro di Jeff Gburek e performance di Ana Kavalis) e Segunda Pele (2017/2019, riprese e montaggio di Alexis Zelensky) continuano in esterno quel rapporto recondito e delicato con l’alterità, qui allargata in ambienti gremiti rispettivamente di oggetti e di persone, mentre i punti focali, ovvero i performers, si lasciano fagocitare da sguardi estranei o letteralmente dagli ammassi colorati di relitti di carri carnevaleschi.
L’antropofagia attraverso l’occhio, oltre ad avere precedenti di allegoria sociale di gran privilegio (si pensi a Histoire de l’œil, 1928, di Georges Bataille), è metafora del cinema stesso, altro medium ben coltivato e restituito da Gruni in un sapiente gioco registico e scenico.
Luca Sposato
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