Quando i grandi architetti allestiscono grandi mostre d’arte
Quando gli architetti allestiscono le mostre d’arte contemporanea cosa succede? Con Mario Botta a Lugano, Balla e Dorazio “volano”. Ecco perché
C’è la scatola e dentro la scatola la carta velina o il pluriball che ne avvolge il contenuto. L’immagine è un po’ cruda, ma utile per riflettere sul ruolo degli allestimenti in una mostra. La “scatola” e il suo “contenuto” infatti raggiungono con immediatezza il pubblico ma all’allestimento si presta generalmente molta meno attenzione. Un errore percettivo indotto dalla fretta di raggiungere il soggetto dell’esposizione quasi non contasse il come, ma solo cosa ci si pare innanzi. Al contrario l’allestimento è con parte della inevitabile performance che l’”opera d’arte” produce intorno a se stessa. Provo qui di seguito a fare qualche esempio.
L’Hangar Bicocca a Milano non è uno spazio nato per le esposizioni e certamente la sua attuale funzione ne risulta condizionata. Va dato atto a Vincente Todolí di saperlo gestire senza per questo rinunciare a grandi sfide. Todolì a questo scopo chiama sempre in correo gli artisti di cui vengono esposte le opere e questi intervengono mettendo alla prova tutta la propria perizia. In fondo è sempre accaduto: sapevano bene quel che facevano gli artisti del tre, quattro e cinquecento italiano e pure quelli della Controriforma affrontando le complesse strutture degli spazi da affrescare che venivano loro affidati. Così nello sheld dell’Hangar hanno trovato un loro specifico ritmo gli elementi difformi voluti da Anicka Yi per Metaspor; o quelli omogenei per NOw/here dove Gian Maria Tosatti che ha costruito l’allestimento con il supporto del light designer Pasquale Mari. Allestire spazi come la Piazza, le Navate o il Cubo dell’Hangar po’ essere anche più impegnativo. Tuttavia, è impossibile non ricordare la poesia del cono di luce che precipita da trenta metri di altezza sul piccolo gruppo scultoreo voluto da Cattelan per Breath Ghosts Blind.
Allestimenti alla Fondazione Prada
Mentre proprio in questi giorni rilucono gli ori e le tende rosse dell’ordinata confusione proposta (in assenza dell’artista non più vivente) per la personale che omaggia James Lee Byars.
Anche lo spazio utilizzato della Fondazione Prada è nato per tutt’altre funzioni. È poi cresciuto su se stesso con un intento polifunzionale (mostre d’arte, cinema, concerti, conferenze e sfilate di moda). Il che rende non facile il compito sia per chi deve allestire che per chi deve poi leggere questi allestimenti. In Recycling Beauty lo studio Rem Koolhaas/OMA ha realizzato una presentazione minimale per il Podium affiancandole un intervento spettacolare, persino un poco gigionesco, negli spazi compressi della Cisterna dove è stata piazzata la ricostruzione della colossale statua di Costantino. Di tutt’altro genere il progetto realizzato dai giapponesi di SANAA per Paraventi: Folding Screens from the 17th to 21st Centuries: lo spettatore si trova immerso in un allestimento complesso e multimediale al piano inferiore; in uno apparentemente casuale al piano superiore, dove una serie di preziosi manufatti di ogni epoca e provenienza sono esposti senza grandi distinzioni se non una vaga traccia temporale.
Il Palazzo dell’Arte a Milano e l’esempio di Botta a Lugano
Il Palazzo dell’Arte sede della Triennale a Milano al contrario venne progettato nel 1939 proprio come sede espositiva. La valutazione sulla qualità del lavoro dell’architetto Muzio è sempre stata contrastatissima. Secondo alcuni lo stabile è di vaga inspirazione razionalista, secondo altri è nato da un tentativo velleitario di opporsi al razionalismo per magnificare invece l’Impero (non quello romano, ma quello di cartapesta del Ventennio). L’edificio da allora ha subito incessantemente interventi di architetti di genere e pensiero diverso.
Nonostante questo, resta uno spazio di difficile resa. Lo dimostra anche l’affollato allestimento di Italo Rota che si è dovuto destreggiare in uno spazio compresso per l’esposizione delle 120 opere di Pittura Italiana oggi. Tuttavia, anche negli spazi meno invitanti qualche volta accadono piccoli miracoli. La Collezione Giancarlo e Danna Olgiati a Lugano sta imbucata in uno spazio dall’ aspetto più che anonimo, specie se messa in relazione con il bellissimo Museo LAC che sorge a pochi metri di distanza. Eppure, l’esposizione in corso dedicata a Giacomo Balla e Piero Dorazio grazie al magnifico allestimento di Mario Botta prende il volo. L’architetto ticinese si è trovato innanzi alla necessità di allineare disegni di Balla in formato foglio di quaderno con gli olii su tela di quasi due metri Dorazio. Così racconta Botta.
“Ho trovato interessante riuscire a sottolineare le differenze tra i due linguaggi: più intuitivo e poetico quello di Balla; più razionale e lirico quello di Dorazio. Due componenti che ho cercato di rafforzare attraverso l’allestimento fornendo due condizioni spaziali completamente diverse (…) Le opere di Balla sono sospese in uno spazio vuoto che conferisce loro un carattere prezioso mentre le opere di Dorazio, sono sospese su ampie superfici, permettendo così di essere apprezzate con senso di proporzione in relazione allo spazio”. (Balla ’12 Dorazio ’60. Dove la luce. Mousse-Milano ISBN 9788867495788).
Balla ’12 Dorazio ’60. Dove la luce
Per i lavori del futurista italiano Botta ha messo in relazione spazio e luce convergenti verso il fondo della sala: i disegni sono sospesi in finestre bianche triangolari che invitano l’osservatore ad avvicinarsi come si fa avvistando un espositore di gioielli. Senza soluzione di continuità, ma su fondo nero, sono disposte a fianco le grandi opere di Dorazio illuminate da una luce diffusa che consiglia uno sguardo più distanziato. Botta ha previsto anche leggeri sedili a clessidra presenti in sala per essere spostati a piacere a secondo della distanza dell’opera da osservare. Sono apparentemente semplici le soluzioni di Botta, come del resto appaiono semplici le linee dei suoi disegni architettonici, si tratti della Scala di Milano (2023), del Bechtler Museum of Art a Charlotte nella Carolina del Nord (2010) o del Mart a Rovereto (1987). Appartiene alla categoria delle archistar Botta, non si sfugge: ma concepisce i suoi interventi come funzionali alla creazione di poli culturali dinamici, luoghi di attrazione per cittadini o turisti dove sorgono. Tutt’altro che banale.
Aldo Premoli
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