La grande mostra di Mark Rothko a Parigi
Quella organizzata dalla Fondation Louis Vuitton è tra le più grandi retrospettive mai dedicate a Rothko. 115 opere per raccontare uno dei maggiori pittori del Novecento, dall’inizio alla fine
Il mondo dell’immaginazione è libero da vincoli e si oppone con violenza al senso comune. È forse il più importante dei cinque punti con cui Mark Rothko (Daugavpils, 1903 – New York, 1970) e Adolph Gottlieb, con l’aiuto e la supervisione dell’amico Barnett Newman (da loro considerato il più abile con la penna) gettano le basi di una nuova estetica, nella famosa “Jewell letter” del giugno 1943. Si tratta anche anche della dichiarazione di principio che meglio resiste all’evoluzione dello stile del pittore lettone-americano e alle successive fratture e diffidenze all’interno della Scuola di New York. Rothko e Gottlieb rispondono a un articolo del critico del New York Times Edward Allen Jewell, che, recensendo la mostra collettiva della Federation of Modern Painters and Sculptors, aveva alzato le mani di fronte al Ratto di Persefone di Gottlieb, una delle sue pittografie più essenziali e scabre, e al Toro siriano di Rothko, tela surrealista e metamorfica, dove le figure sembrano contenere a stento un dramma segreto. Jewell dichiara la sua incapacità a decifrare queste opere per i suoi lettori. I due artisti replicano con una dichiarazione d’indipendenza.
La mostra di Mark Rothko a Parigi
Passando in rassegna le 115 opere esposte alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, in una delle maggiori retrospettive dedicate all’artista della pittura assoluta, si comprende come la libertà, nell’arte e nella vita, non arrivi mai facile. Neppure ai più dotati. Nelle sale centrali i campi di colore galleggiano, che siano densi come magma o leggeri come nuvole (magari radioattive). Sono i lavori degli anni Cinquanta e Sessanta, tele per lo più grandi e impositive, ben distanziate, per non creare attriti e disturbi; allestite più basse del solito per avvicinarsi al livello dello spettatore. Anche la luce diffusa è quasi da penombra: l’hanno voluta così Suzanne Pagé, direttrice artistica della Fondazione, e Christopher Rothko, figlio dell’artista e co-curatore della mostra. Una scelta efficace. L’atmosfera è tra Strehler e la liturgia sacra.
I campi di colore sono campi di energia. Le regioni pittoriche di Rothko vibrano nei contorni, grazie a stesure multiple, a impasti di pigmenti, all’uso sovrapposto di pennelli rigidi e morbidi. Danno una scossa allo sguardo. Nulla di facile, neanche nella tecnica. Il N. 14 del 1960, dalla collezione del MoMA di San Francisco, da sempre uno dei più fotografati e riprodotti, mette in scena un temporale interiore. Mark Rothko ha sempre rifiutato la definizione di serenità per i suoi quadri. La sua libertà è drammatica. Brucia come il fuoco. La lucentezza dei colori di Rothko non è quella della morte, come sosteneva l’amico Clyfford Still; evoca piuttosto un’ascesi dell’arte. Sempre in tensione tra morte e vita, poli che si scambiano onde di energia.
Mark Rothko: dalle prime opere ai Multiforms
È il caso di fare un salto indietro, nella mostra e nella biografia di Rothko. All’inizio del percorso cronologico, al piano inferiore della Fondation Louis Vuitton, ad accogliere il visitatore è un autoritratto del 1936, occhiali neri, figura leggermente obliqua, colori scuri e pastosi sul marrone e il ruggine: un Caronte ombroso, che ci traghetta nel suo mondo. All’epoca del dipinto, Mark Rothko è ancora, all’anagrafe, Markus Rothkowicz (cambierà il nome pochi anni dopo per timore dell’antisemitismo crescente). La famiglia, ebrei lettoni, era arrivata negli Stati Uniti nel 1913 per sfuggire ai pogrom e per evitare che Markus e i suoi fratelli fossero arruolati a forza nell’esercito imperiale russo. Le scene urbane degli anni Trenta, per esempio i quadri dalla serie delle Subways che seguono il ritratto, hanno toni cupi e l’architettura è impiegata per stendere colori quasi piatti che mutilano la scena. Il pittore è influenzato dall’atmosfera della Grande Depressione e dall’impegno politico. Ma si avverte l’eco poetico della Unreal City di T. S. Eliot che rintocca come un’invocazione angosciosa nel poema La Terra Desolata: “Una folla scorre sul Ponte di Londra, così tanti/ non credevo che la morte ne avesse disfatti così tanti”.
Presto la sua attenzione si sposta su mondi arcaici, l’ispirazione arriva dai miti e dalla tragedia greca, le figure si nutrono del surrealismo di Dalì ed Ernst, in parte della metafisica di De Chirico. Rothko desidera una pittura che vibri oltre la figura, al ritmo della musica e della poesia. Da principio, però, le figure cambiano sotto i suoi occhi e il suo pennello, germinano e si avvinghiano come nel potente The Omen of the Eagle del 1942 (Il presagio dell’aquila). Poi si frammentano: diventano figure biomorfe che guardano a Mirò e ad Arshile Gorky – di cui era stato allievo – e si evolvono nella serie dei Multiforms. Questo periodo oggi conosce una nuova fortuna critica anche se non ha la compiutezza dei grandi quadri successivi. Rothko dirà che ogni rappresentazione figurativa è frutto di una mutilazione e che l’artista non può rappresentare il suo mondo con una mutilazione.
C’è una spiritualità che cerca la sua via nello studente di Talmud disilluso dalle religioni ufficiali, dai precetti comandati. Ed ecco le bande di colore; ma sarebbe più giusto chiamarle “partiture di colore” dato l’amore di Rothko per la musica. Soprattutto Mozart. Eppure all’occhio e all’orecchio insieme, per sinestesia e simmetria, si presentano le variazioni Goldberg di Bach suonate al piano da Glenn Gould (meno memorabile, una colonna sonora del compositore Max Richter accompagna l’esposizione).
Rothko rigettava la definizione di colorista. Non apprezzava essere inserito, come avviene di solito per consuetudine critica e per le sue frequentazioni artistiche, nell’Espressionismo astratto. “La mia arte non è astratta. Vive e respira” puntualizzava. I suoi quadri tra gli anni Cinquanta e Sessanta bruciano a fuoco lento, come altoforni dell’anima, operazioni alchemiche: il colore serve per purificare ogni carne, figura e materia.
Le opere di Mark Rothko alla Fondazione Louis Vuitton
Le opere alla Vuitton vengono da istituzioni prestigiose, come la National Gallery of Art di Washington, la Phillips Collection, dai MoMA di New York e San Francisco, dalla collezione dei figli e da musei più piccoli quali il Munson di Utica; la Tate Modern di Londra ha prestato i suoi celebri Seagram Murals, che non arrivarono mai, per un ripensamento (o pentimento) del loro autore sulle pareti del mondanissimo ristorante Four Seasons di Manhattan, per il quale erano stati commissionati. Rothko aveva pensato a quadri che facessero “vomitare” ai capitalisti il loro sontuoso pasto e alla serie come a una sorta di prigione artistica, più mentale che fisica, un po’ come nell’Angelo Sterminatore, il film di Luis Buñuel in cui i convitati di un banchetto non riescono misteriosamente ad uscire dal palazzo che li ospita. Queste stratificate, enormi tele dipinte a olio, acrilico e tempera in marroni bruciati, strisce di ruggine, rossi corrosivi non stimolano l’appetito neppure alla Fondazione Vuitton. Raccolti in una sala, sembrano rimandare a certi tappeti da meditazione tibetani e mongoli portati a dimensioni giganti. Spazio da digiuno e penitenza. Più evidenti nelle drammatiche “feste” di colore degli stessi anni i rimandi a Matisse (Rothko aveva ammirato al MoMA Lo Studio Rosso e aveva dedicato al maestro francese un omaggio nel 1954), agli affreschi di Fra’ Angelico, alle pitture murali della Villa dei Misteri di Pompei. Il rosso bruciato (e conservato) dal flusso piroclastico del Vesuvio risuonano nelle sue corde. Jason Farago – che ha recensito la mostra alla Fondation Louis Vuitton per il New York Times – ha visto in alcune tele una tentazione decorativa (per un pittore che voleva essere “fancy free”!). Si potrebbe dire che è piuttosto lo stesso sguardo che Leonardo Da Vinci aveva per le macchie sui muri. L’immagine trovata invece che l’objet trouvé.
Gli ultimi anni e il suicidio
Ogni colore e tentazione si dissolve poi nelle grandi e assorbenti superfici dei Black on Grays. Sono gli ultimi anni della vita di Rothko: troppo facile metterli in relazione con il suo suicidio nel febbraio del 1970. In quei giorni, l’artista continuò a dipingere a colori brillanti, insieme a queste tele spoglie. Leggeva spesso poesia, il Rothko degli ultimi anni. E concludeva il lavoro titanico alla Rothko Chapel di Houston per la famiglia De Menil: un’“opera al nero” chiusa in un ottagono bizantino. A Parigi, nella stanza più alta dell’edificio progettato da Frank Gehry, cinque neri su grigio hanno insieme un afflato lirico, grazie anche all’accostamento con due statue di Alberto Giacometti, l’Uomo che cammina I e Grande Femme III (era un desiderio di Rothko esporre insieme a Giacometti all’Unesco, esaudito postumo).
The Waste Land si chiude con tuoni che non portano pioggia sul paesaggio roccioso e un orizzonte piatto come gli ultimi quadri di Rothko. Eliot evoca tre parole in sanscrito: “Datta. Dayadhvam. Damyata”. Dono, compassione, controllo di sé. Il poeta alla fine si siede su un mare calmo. I Black on Grays sotto le vele di Gehry danno un senso di speranza. Di partenza. “Poi s’ascose nel foco che gli affina”: la citazione dantesca di Eliot si addice alla pittura di Rothko, i quadri finali non sono appunti del suicidio, ma la catarsi della tragedia.
Fabio Sindici
Parigi // fino al 2 aprile
MARK ROTHKO
Fondation Louis Vuitton
8 Av. du Mahatma Gandhi, 75116
https://www.fondationlouisvuitton.fr/fr
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