Videointervista ad Adrian Paci sulla poetica dell’intensità

Per Lea Vergine artisti come Adrian Paci sono "rarissimi" e a lui è dedicata l'ultima videointervista realizzata da Stefania Gaudiosi nella serie "L'arte è un delfino". Eccola

“È rarissimo trovare un Adrian Paci, per esempio. Rarissimo”. Disse così Lea Vergine, durante l’intervista che le rivolsi nel 2019, un anno prima della sua scomparsa. Le avevo chiesto cosa pensasse del fatto che gli artisti fossero oggi così numerosi. Lei rispose, con parole irripetibili per acume e grazia, che nella “ignoranza senza fantasia” a cui l’arte contemporanea è stata consegnata, l’eccessiva quantità degli artisti, o presunti tali, ne avrebbe distrutto definitivamente la qualità. E aggiunse: “Mentre prima lo trovavi su venti, adesso [un Adrian Paci] lo trovi su duemila. Non su duecento, su duemila”.

Poco più avanti, in un altro passaggio della stessa intervista, ipotizzando un rapporto possibile tra arte e politica, ancora: “È quando pensiamo, per esempio, ad Adrian Paci che ci viene in mente ‘arte e politica’. Quando vediamo i suoi migranti tutti su una scaletta e poi c’è il vuoto. Questa la vogliamo chiamare ‘anche’ arte politica?”.

Allora, proverò a muovermi sul filo di queste due tracce suggerite da Lea per abbozzare una mappa di senso che restituisca almeno in parte le molte dimensioni del lavoro di Adrian Paci: la sua rarità – individuarne il punctum – come artista, e quell’anche che mette al riparo la sua opera da un giudizio parziale. La rarità è tutta in una parola, da tempo bandita dai discorsi attorno all’arte, che non sentivo dai tempi degli studi universitari, quando ancora ci si poteva avvicinare all’arte sognando a cuore aperto. La parola è intensità.

Adrian Paci - Per Speculum
Adrian Paci – Per Speculum (2006)

L’intensità secondo Adrian Paci

Adrian Paci (Scutari, 1969) la pronuncia in tutta la sua potenza per qualificare – nei momenti cruciali del suo racconto – il senso e il valore di un’opera d’arte. Ma che cos’è l’intensità? Il vocabolario dice: “accentuata forza di azione e partecipazione, o portata di un fatto o di un fenomeno in relazione agli effetti caratteristici consueti”; e anche: “il grado di forza o la violenza con cui si produce o manifesta un fenomeno, una sensazione, un sentimento, uno stato psichico, una condizione della volontà, ecc.: intensità della luce, intensità del suono…”.

Ma se nei fenomeni fisici l’intensità è misurabile con una certa precisione, come si misura nell’arte? No, non si misura. È un’intensità proporzionale all’occhio sensibile di chi guarda il mondo, la vita, e che si fa strumento, raffinato e indeterminato, di capienza poetica. È il campo del non numerabile e, quindi, di ciò che non è controllabile. È il luogo in cui la comprensione non è il punto, laddove il bisogno di “capire” tradisce tutto il limite dell’attitudine umana che si risolve nel prendere possesso.

Il punto è, invece, stupirsi, accedere al territorio della meraviglia, che è comprensione ulteriore, caotica, feconda e infine riproduttiva, non già dell’intelletto, ma dell’essere nella sua interezza irriducibile e misteriosa. Come potrebbe, altrimenti, accedere all’indicibile? Perché l’intensità dell’arte è anche uno specchio. Nulla che si possa dire a parole, come nulla si può dire di fronte all’essere che si manifesta: è un nucleo di densità materica e concettuale, un potenziale concentrato nell’intreccio di realtà e finzione, di conflitto e di armonia, che supera il mondo attuale e ne prefigura un altro.

Così nelle opere di Adrian Paci l’apparizione di corpi e volti, spesso colti nel racconto del dramma individuale e collettivo nel quale sono immersi, ridiventano reali attraverso l’intensità dello sguardo che li restituisce, al mondo, in forma nuova. La finzione – dirà – è, di fatto, lo specifico dell’arte. È l’artificio che rende nuovamente visibile (e reale) quello che si vede confusamente in un flusso vitale indistinto e omologante. Gli artisti sono, dunque, coloro che sprigionano il potenziale che è già nella vita, nelle cose esperite nel flusso del reale, per restituirlo – attraverso la finzione (il come se, che assomiglia al gioco serissimo dei bambini) – nell’opera, come passaggio e come traccia.

Adrian Paci Centro di permanenza temporanea Videointervista ad Adrian Paci sulla poetica dell'intensità
Adrian Paci – Centro di permanenza temporanea (2007)

L’opera “Centro di permanenza temporanea” di Adrian Paci

Il lavoro di Adrian Paci è – anche – politico, dicevamo, perché tocca con espressività spiazzante alcune questioni cruciali che riguardano l’umanità, i suoi spazi vitali, i suoi riti, la memoria individuale, che è come una scintilla nel fuoco della storia. Corpi di donne e di uomini, immersi nella complessità drammatica e travolgente delle vicende collettive, performano la loro fragilità e precarietà, negoziando incessantemente con l’assurdità e la violenza del sistema – fatto di strutture sociali, geopolitiche e burocratiche paradossali – il diritto di esistere liberamente e di sconfinare.

La migrazione, l’abbandono della terra d’origine per seguire un desiderio di futuro e lo scarto d’immaginario che necessariamente comporta, è traccia ricorrente nelle sue opere, a partire dalla sua vicenda personale, che ha segnato come un codice genetico il destino di gran parte del suo lavoro artistico.

Centro di permanenza temporanea
(2007) è forse la sua opera più nota. Il video, girato nell’aeroporto di San Jose in California, ritrae un gruppo di immigrati sulla scala di un aereo in attesa di essere rimpatriati. La rampa si riempie lentamente di uomini e
di donne, ma l’aereo non arriva e rimangono lì, sulla scala, sospesi tra terra e cielo. Contenuto e forma non sono più scindibili. C’è la storia contingente, reale – i corpi, i volti dei migranti, il loro stesso migrare, un intimo vettore di destino – resa assoluta da una forma così fedele da essere necessaria.

“I suoi migranti tutti su una scaletta e poi c’è il vuoto”, diceva Lea. È quel vuoto (la sua forma) che colma di senso la storia. È un’opera la cui tragica attualità sembra essere inesauribile: un problema, un trauma collettivo – che acceca, che dispera – e che si lascia placare, solo per un breve istante, in una suprema armonia. Poi, ancora, la vertigine del vuoto a suggerire una nuova consapevolezza in chi guarda, la pienezza di un senso nuovo.

Adrian Paci Il silenzio delle piante Videointervista ad Adrian Paci sulla poetica dell'intensità
Adrian Paci – Il silenzio delle piante (2019)

Le opere d’arte di Adrian Paci come tracce di esperienza

Adrian Paci si esprime in una miriade di forme e di linguaggi, fa con tutto quel che serve allo scopo, perché è la visione a suggerire tecniche e modi di realizzazione. Ogni opera è una storia a sé. Tra le sue visioni, dunque, non si può fare altro che muoversi come un insetto che intercetta con le antenne campi di energia poetica.

Durante la nostra conversazione, parleremo dell’idea di opera come reperto e come traccia, della possibilità di una traduzione delle immagini, che “cambiano voce” in una metamorfosi di codici, tecniche e supporti (che poi, forse è ancora una volta una migrazione: del segno, del senso). Dalla rapidità e fragilità del segno grafico sulla carta, alla ieraticità del marmo, alla lentezza della tessitura, come in Compito#1 (2022) che riporta su un pavimento di mosaico, la scrittura misteriosa dei quaderni di Maurizio, ospite della Comunità di Sant’Egidio.

Oppure, ancora, dall’immagine movimento del cinema all’immagine pittorica, come nelle serie Dancers and Mourners, che dal 24 novembre sarà protagonista, assieme ad una selezione di video, di una mostra presso la galleria kaufmann repetto di Milano, e che riporta alla pittura istanti tratti da video di matrimoni e riti celebrativi in ​​Albania, film d’autore e fotogrammi tratti da documentari, perché – come dirà Adrian stesso durante una conversazione con il curatore Alessandro Rabottini: “la pittura ti consente di staccare quell’immagine dalla narrazione e creare un piccolo spostamento, che è proprio lo spazio all’interno del quale l’immagine può vibrare e respirare”.

Altre opere attraverseranno il racconto e ci aiuteranno a configurare ipotesi e visioni. Dal video Albanian Stories (1997), in cui registra i racconti di sua figlia Jolanda, che mescolano le storie delle sue bambole, le fantasie infantili, le fiabe, alle cronache di guerra, fino alla complessa opera The Column (2013), video che segue il percorso di un blocco di marmo estratto da una cava nei pressi di Pechino, lavorato e modellato durante il viaggio in nave dalla Cina all’Europa, che infine diventa una colonna corinzia, a sottolineare l’assurdità di una strategia economica in cui la dinamica della domanda e dell’offerta è portata ad esiti estremi, facendo coincidere i tempi di consegna e di realizzazione del prodotto. Anche qui, ancora, saranno i volti degli uomini a fare da contrappunto tragico al paradosso di un sistema disumano. Resterà, infine, la colonna, pegno materiale disteso e inerte come un
reperto.

The Encounter
(2011), performance che isola e replica il gesto della stretta di mano tra l’artista e le centinaia di persone che sfilano sul sagrato della chiesa di San Bartolomeo a Scicli, ci permetterà di toccare il tema della ritualità, e Il silenzio delle piante, installazione composta da un grande anello di ferro che circonda un albero e da due sgabelli su cui ci si può fermare, sarà lo spunto per decentrare lo sguardo dall’umano, per farlo tornare alla complessità di una natura che ci chiede, silenziosamente e disperatamente, ascolto.

In Per Scepulum (2006), infine, un gruppo di bambini, arrampicati sui rami di un albero, utilizzano i frammenti dello specchio che hanno rotto (e in cui era riflessa la loro immagine) per riflettere la luce del sole, in una scena mutevole e pulsante, trasformando così un evento carico di tragico simbolismo in gioco.

Adrian Paci The column Videointervista ad Adrian Paci sulla poetica dell'intensità
Adrian Paci – The column (2013)

L’ascolto dell’intensità proposto da Adrian Paci

Ecco, quello che ho imparato da questo incontro è una dimensione, più che una nozione, una profondità, più che una direzione: un’opportunità nuova che possiamo, come viventi, offrici. Se l’arte ha una funzione, al mondo, è questo margine di cambiamento che ci porta. In questi tempi tragici, bisogna tornare all’umano con una domanda nuova. Ed è di questa disposizione all’ascolto – intenso – delle cose che genera domande più che risposte, che il lavoro di Adrian Paci ci parla. Di questa alchimia interiore che, dentro al dramma dell’umano, ci rende nuovi, ogni volta, e di come, poi, il dolore può trasformarsi in canto.

Non a tutti gli artisti avrei potuto fare le domande che ho fatto a lui. Non tutti gli artisti avrebbero risposto come ha risposto lui.
Buona visione.

Stefania Gaudiosi

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Stefania Gaudiosi

Stefania Gaudiosi

Stefania Gaudiosi è artista, curatrice e promotrice culturale. Studiosa e teorica dell’arte, con particolare interesse per l’Arte Cinetica e per l’opera di Iannis Xenakis, è autrice di diversi saggi dedicati ai temi della contemporaneità, della multimedialità e dei new media.…

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