Chi decide cosa sono le Industrie Culturali e Creative?
Negli anni la definizione di ICC ha continuamente subito modifiche, minando l’efficacia di report e statistiche. Alcune possibili soluzioni
È ormai più di un decennio che, nonostante i vari sforzi operati, non si riesce a distinguere con esattezza il perimetro del cosiddetto cluster delle Industrie Culturali e Creative. Ci hanno provato in molti, con risultati altalenanti: università, centri di ricerca, agenzie comunitarie. Il risultato aggregato di tali sforzi è tanto chiaro quanto disarmante: l’aggregazione di differenti tipologie di imprese all’interno del settore delle ICC presenta notevolissimi margini di arbitrarietà, a fronte dei quali chiunque si accinga a determinare le caratteristiche essenziali incorre nell’esigenza di apportare delle piccole ma significative (in senso statistico) modifiche agli aggregati pre-esistenti.
Per dirla semplice, quindi, ciò che accade è che ciascun report sulle ICC risulta essere difficilmente comparabile con altri, sia in una logica temporale, sia in una logica geografica, riducendo il potenziale informativo e di conoscenza che rappresenta la ragion d’essere di tali report.
Il problema delle Industrie Culturali e Creative
Il tema è chiaramente ancora del tutto aperto e, anzi, più il dibattito si prolunga, più diviene difficile trovare una linea che soddisfi tutti i punti di vista. Si tratta, tuttavia, di conseguenze che derivano da un errore di base che necessariamente si manifesterà nelle sue applicazioni. Tale errore non è di natura metodologica, bensì strategica e può essere sintetizzato come segue: le ICC non esistono. Proviamo ad essere più chiari. La definizione Industria Culturale e Creativa viene alla ribalta nel 2010, quando la Commissione Europea pubblica un “Green Paper” il cui obiettivo era quello di “sbloccare il potenziale delle industrie culturali e creative”. Prima di allora, anche a fronte di una differente sensibilità collettiva, lo sforzo definitorio del cluster, seppur esistente, era notevolmente più labile. È solo con la pubblicazione del Green Paper, che tale aspetto definitorio è divenuto prioritario. Così come è divenuto prioritario che, a sancire l’esistenza di questo cluster, fosse un interlocutore scientifico, in grado di esprimere una terzietà rispetto a qualsivoglia interesse economico. Un percorso burocraticamente ineccepibile, sia chiaro, ma che concretamente non potrà far altro che portare ad un nulla di fatto. Non per debolezza del sistema accademico, ma perché lo si sta investendo di una responsabilità che non è in linea con la struttura stessa della ricerca e dell’università.
L’impossibilità di definire il settore delle ICC
Non dovrebbe essere un’università, o una tesi di dottorato di ricerca a stabilire quali imprese possano essere considerate culturali, creative, o culturali e creative. Né tantomeno potrà mai un’università o una ricerca stabilire quali debbano essere i parametri di riferimento. L’universo economico che le ICC riflettono, infatti, è estremamente peculiare: non presenta un’omogeneità di prodotto o di servizio, di dimensioni, di settori, di catene di creazione del valore. Ciò fa sì che, banalmente, quello delle Industrie Culturali e Creative sia un settore che non delimitabile secondo uno schema fisso e immutabile nel tempo, ma debba essere necessariamente monitorato, analizzato e confermato. Cosa succede, ad esempio, se un’impresa che si occupa di comunicazione social apre una galleria d’arte? Cosa succede se una holding, che per anni ha organizzato mostre, decide di riconvertire lo spazio che aveva in gestione destinandolo o co-working?
In un mondo ideale, qualsivoglia modifica all’attività caratteristica e prevalente dovrebbe accompagnarsi ad una richiesta di modifica del codice ATECO di appartenenza, con aggiornamento dello storico e della descrizione delle attività. Nella pratica, questo passaggio non avviene mai repentinamente, e anche i dati ufficiali in possesso del settore pubblico potrebbero non essere aggiornati. Come si può pensare che l’accademia possa chiudere tali dimensioni all’interno di un insieme statisticamente rilevante che sia anche costante nel tempo?
La realtà, quindi, è che a stabilire quale debba essere l’area di intersezione delle imprese culturali e creative non debba affatto essere l’accademia, ma le imprese in sé. E le stesse imprese dovrebbero aggiornare le proprie attività in modo da mantenere una “traccia” affidabile nel tempo del settore.
Il punto è che, chiaramente, un’impresa assumerà un ruolo proattivo in questo senso soltanto se il tempo-lavoro da dedicare alla propria registrazione possa rappresentare una valida opportunità. E tale opportunità, nell’attuale scenario generale, può essere generata soltanto da un’azione di policy.
Una proposta di policy fiscale e culturale
Si ipotizzi, ad esempio, una politica fiscale che prevede che le spese sostenute per la cultura e la creatività possano essere dedotte dalle tasse. Tali spese, per essere dedotte, dovrebbero essere sostenute utilizzando una specifica carta di credito, e soltanto per prodotti o servizi erogati da imprese iscritte ad un apposito registro. Tali imprese, per registrarsi ed essere competitive quindi con gli eventuali competitor, dovrebbero presentare specifiche documentazioni atte a dimostrare la loro natura culturale e creativa. La valutazione e il monitoraggio dei requisiti, oltre che d’ufficio, potrebbe essere condotta da studenti e dottorati universitari, da centri di ricerca e da altri enti, che sarebbero interessati ad analizzare i dati per poter procedere, sotto il profilo scientifico, ad una maggiore conoscenza del settore, identificando potenziali anomalie e segnalandole agli uffici competenti. Una modifica fiscale che comporterebbe senz’altro dei costi per l’erario, ma che si assocerebbe anche a numerosi vantaggi. In primo luogo permetterebbe di stabilire in modo più corretto e corrente il perimetro delle ICC, condizione che aiuterebbe anche a meglio indirizzare aiuti economici e finanziamenti a fondo perduto verso il settore, evitando quindi una dispersione delle risorse pubbliche; in secondo luogo ci sarebbe un’effettiva azione di governo volta ad incrementare i consumi culturali e creativi, agendo mediante il meccanismo della deduzione, che avviene a posteriori, e quindi evitando molte delle criticità che si sono manifestate con l’utilizzo dei “bonus”.
Infine, l’incremento dei consumi che tale politica fiscale genererebbe nel tempo permetterebbe una riduzione delle altre forme di contributi che oggi vengono erogati alla cultura, riducendo quindi il peso del finanziamento pubblico e aumentando invece quello del consumo privato.
Lo Stato si comporti come tale
Al di là degli aspetti prettamente numerici, ciò significherebbe un incremento del numero di cittadini che consumano abitualmente cultura, con tutti i risvolti positivi che ci si attende da questo tipo di dinamica collettiva. Chiaramente, questo tipo di politica fiscale dovrebbe sempre tener conto delle grandi complicazioni che ogni tipo di riforma fiscale prevede: le eccezioni, i casi limite, i casi di abuso, e gli altri mille aggiustamenti a cui siamo in ogni caso già abituati. E pur trattandosi di una riflessione generica, senza alcun tipo di velleità applicativa, è possibile fin da ora affermare che, per quanto onerosa per le casse dello Stato, una tale riforma avrebbe sicuramente un costo inferiore alle ultime politiche fiscali che sono state applicate al settore immobiliare, sui cui esiti ci sono ancora pareri molto divergenti.
Tornando al punto principale, tuttavia, il sunto è che non importa quale possa essere il contenuto specifico della policy, quel che conta è che sia una policy a far sì che imprese così differenti sentano l’esigenza di dichiarare su quali aspetti il loro lavoro possa essere ascrivibile al cluster delle Industrie Culturali e Creative.
Non che tale processo consenta di definire in modo scientificamente esatto una classificazione. Ciò che però si innescherebbe è la creazione di dati più aggiornati, più realistici, più verificati, che possa servire come base di partenza per poi sviluppare, a partire da “informazioni” comuni, un metodo rigoroso e formale di inclusione o esclusione da tale aggregato. Non possiamo più permetterci di riversare sull’accademia una funzione che non le compete. È ora che lo Stato si impegni per realizzare delle politiche credibili e realmente incisive, abbandonando l’effetto discount, e iniziando a pensare più da Stato che da privato.
Stefano Monti
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