La Sindrome di Stendhal non esiste. Ma l’arte ci aiuta a dialogare col sacro
L’arte e il senso del sacro nell’opera di Rothko, in mostra alla Fondazione Louis Vuitton di Parisi. E la relazione con l’attualità sempre più complessa che il mondo ci chiede di affrontare
È il 20 gennaio del 1817, quando, stando alla seconda edizione del suo Rome, Naples et Florence, Stendhal arriva a Firenze e visita Santa Croce. Qui, lasciato solo nella cappella del Volterrano si sente quasi stordito e all’uscita, in preda ad una emozione che riunisce le sensazioni celestiali dell’arte e dei sentimenti, ha un attacco di tachicardia che lo porta a sedersi su una panchina dove rilegge i Sepolcri. Nasce così la famosa sindrome. In realtà questo racconto sembra essere più una ricostruzione romanzata che reale, anche perché nella prima edizione dei diari non c’è traccia di questo evento e Firenze viene definita “volgare”. Insomma, la più importante manifestazione psicologica di fronte ad un’opera d’arte a cui tutti aspiriamo, per poter manifestare la nostra sensibilità, è molto probabilmente una “invenzione” e non c’è mai stata. Del resto, anche la morte di Bergotte davanti alla Veduta di Delft, meno nota ma per certo più decisiva, è figlia di un errore. “Le petit pan de mur jaune” non c’è. Forse dovremo abituarci ad una lettura meno emotiva e rassegnarci a visioni meno eroiche del nostro rapporto con l’arte.
Rothko alla Fondazione Louis Vuitton di Parigi
Erano queste le riflessioni che rimuginavo tra me e me mentre stavo osservando Blu and Gray del 1962 e n 14 del 1960 alla retrospettiva su Rothko alla Fondazione Louis Vuitton di Parigi, pensando appunto che la Sindrome di Stendhal non esiste ma se esistesse quelle sarebbero fra le opere in grado di provocarmela.
“Ho sempre dipinto tempi”, è ciò che dice Rothko della sua pittura, e lo si percepisce già nella prima sala della mostra, quando ancora era evidente una tendenza figurativa che poi, dopo l’opera n 17 del 1949, lascerà lo spazio all’astrattismo. E proprio nella prima sala della mostra appaiono i due fondamenti del Tempio, quello classico, greco, del mito, ben evidente nella figura del Minotauro dell’opera La famiglia e quello della cultura ebraica nelle immagini della Metropolitana. L’occidente si da come fusione di questi due filoni culturali che trovano nel Tempio l’icona rappresentativa. Ma cos’è il Tempio, greco o ebraico che sia? È il luogo in cui è “contenuto” il Sacro, ma la parola contenuto non ha il significato moderno di deposito ma semmai quello di “contenere” ossia limitare, isolare, rendere meno pericoloso. Il Sacro è la parte oscura della nostra vita, la follia, l’indicibile, ciò che non può essere visto o rappresentato, pena restare folgorati. Il solo che può avvicinarlo, a prezzo di grave pericolo e nella impossibilità di dirlo in maniera comprensibile, è lo sciamano, il profeta, l’oracolo.
Il sacro nell’opera di Rothko
Fra le critiche che sento tra gli amici che mi accompagnano nella visita della mostra c’è il fatto che “non si capisce”, quasi fosse un limite e non l’essenza stessa dell’arte. Come l’oracolo, l’opera di Rothko “non dice” ma allude, apre piccoli fori attraverso cui forse intravvedere in un mondo che non è nostro. Le sue sono opere sono icone e come le icone fanno da trait d’union tra la nostra vita e il sacro. Proprio quel sacro che è il fondamento indicibile e pericoloso dell’occidente. Una mostra in cui alla fine appare “sulle aride pendici del temibile…, portatore di sterminio … un fiore (che) allieta”, non è la Ginestra ma l’amore del figlio che volendo sottrarre il padre ad una lettura banalmente sanitaria, che vuole il suo suicidio frutto del suo periodo nero, realizza un’ultima stanza con tre opere dal titolo significativo “Le couler, encore”. Una esposizione dove la grande assente è la storia la cronaca e i suoi conflitti, creando un senso di estraniamento dalle contingenze. Eppure, nello stesso momento non riuscivo a non pensare e a non parlarne con i compagni di viaggio, della tragedia che si stava consumando a Gaza e di quella che si era appena consumata nei Kibbutz e mi chiedevo come si può guardare l’arte di fronte alla distruzione.
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L’arte contemporanea e la guerra
Pensieri analoghi sono stati sviluppati all’indomani dell’olocausto. Non è facile, la contraddizione è evidente ma è sbagliata. Bisogna trovare il coraggio di denunciare il ricatto emotivo. Non si possono concedere troppe vittorie al terrorismo. L’arte, e quella di Rothko più di altri, non consola, non porta a dire “che bello” ma semmai apre baratri. Baratri di senso che ci costringono a guardare in faccia il mondo. Quando l’oracolo parla poi non si può fare finta di nulla. Ecco perché l’arte non consola ma costringe a trovare il fondamento del pensiero e della vita. L’opera di Rothko è un continuo tentativo di dialogo tra l’uomo e Dio, ma il Dio con cui cerca di cerca di parlare Rothko ci lascia da soli con le nostre miserie e le nostre responsabilità. Per anni abbiamo vissuto nella illusione che le nostre guerre fossero volute da Dio e le abbiamo combattute in suo nome. L’arte ci insegna che il mondo del sacro non parla con noi, dobbiamo accettare la nostra solitudine e smarrimento. Come Leopardi nell’Infinito, Rothko ci porta sul baratro e ci lascia senza consolazione. Diceva Primo Levi “io credo che si possa fare poesia dopo Auschwitz, ma non si possa fare dimenticando Auschwitz”.Mai come oggi non dobbiamo arrenderci alla barbarie, dobbiamo trovare il coraggio di guardarla in faccia per combatterla, avendo coscienza che l’arte ci obbliga a non accettare il mondo così come lo abbiamo costruito. “La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”, Franco Fortini.
Domenico Ioppolo
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