La pietra di Mattia Bosco: tempo allo stato solido

La relazione tra uomo e natura, l’anima più antica di Roma, l’archeologia nell’opera di un artista contemporaneo che reinterpreta il mito delle Kòrai

Il tempio di Venere e Roma, il più grande della Roma Antica, inaugurato nel 136 d.C., si accende con Kòrai personale di Mattia Bosco, a cura di Daniele Fortuna, che, attraverso dodici opere, realizzate in marmi rari e preziosi, ne riporta in vita il genius loci, innescando un corto circuito temporale che genera una sensazione di spaesamento e crea una profonda connessione con il tempio.

La mostra di Mattia Bosco a Roma

Nella Cella di Roma, nove Kòrai sono posizionate in cerchio. Memoria di fanciulle che, come antiche vestali, lavorano in modo congiunto, officiando un rito misterioso e sconosciuto. Presenze dal fascino enigmatico e magnetico che, simili nella forma, rivelano lievi differenze nelle pose in cui solo colte. Infatti, pur essendo le uniche sculture dell’artista figlie del disegno, sono legate alla pietra da cui provengono. L’arte di Bosco è sostenibile in quanto si compone di massi scartati dal lavoro di estrazione, a partire dai quali l’artista “Compie un viaggio alla scoperta della forma intrinseca nella materia”. “Lo scultore non inventa la forma ma la riconosce nell’oggetto stesso, contribuendo ad esaltarne il processo di formazione”. Parole da cui si evince il rispetto di Bosco per il pianeta, rafforzato dalla consapevolezza di lavorare su “Pezzi di mondo che hanno milioni di anni”. L’artista filosofo che, riprendendo un concetto caro al mondo classico, terminata l’opera, se ne sente pressoché espulso, afferma: “Lo scultore è l’ultimo degli agenti, dopo quelli atmosferici, che entrano in gioco nel percorso di trasformazione della pietra”. Nello stesso tempo, tuttavia, è conscio del potere del gesto artistico che consente al minerale di compiere un passaggio antropologico quando “la pietra viene messa in piedi”. 

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Le korai di Mattia Bosco e l’archeologia a Roma

Nella suggestiva cella di Venere, le Sezioni Auree, chiamate così in relazione all’oro che per l’artista: “è luce allo stato solido”, come pagine di un libro, grazie al tocco alchemico di Bosco, si aprono e svelano la loro essenza segreta: “I frammenti scintillanti […] si coagulano in lamine cicatrizzando la superficie scoperta, radunandosi in sezioni auree”. Metafora di quanto ogni “pezzo di mondo” sia prezioso perché custode di un segreto vitale: “Il dna è lo stesso dell’origine di tutte le cose”. Stongate, posizionata di fronte all’Anfiteatro Flavio, rappresenta un portale verso un’altra dimensione, fisica ed emotiva, ove: “La forma si configura come un itinerario dell’uomo dentro la pietra, un addentrarsi nella sua stratigrafia e nel libro del mondo di cui ogni pietra è un frammento”. Per Bosco la scultura rappresenta un potente tramite tra l’uomo e la natura. Il messaggio che intende trasmettere attraverso la sua ricerca è che: “Non serve radere al suolo tutto, far guerra alla pietra, ustionarne la bellezza con propositi di conquista. Si tratta piuttosto di generare possibilità di convivenza, di aprirsi una radura nella pietra, e non di deforestarla perché abbia un’immagine, la nostra immagine”. Per questo, nel suo scolpire non è mai violento o aggressivo; non persegue mai un’idea estetica fine a se stessa, preferendo di gran lunga farsi strada dove si prefigura una via: “La forma, così intesa, abita la materia come l’uomo la sua casa, e come forse l’uomo potrebbe vivere in questo meraviglioso pianeta”.

Ludovica Palmieri

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Ludovica Palmieri

Ludovica Palmieri

Ludovica Palmieri è nata a Napoli. Vive e lavora a Roma, dove ha conseguito il diploma di laurea magistrale con lode in Storia dell’Arte con un tesi sulla fortuna critica di Correggio nel Settecento presso la terza università. Subito dopo…

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