La grande domanda, davanti alle rovine di Africo, è una: se sia meglio lasciare che la natura nasconda definitivamente il paese svuotato dopo l’alluvione del 1951 (e paracadutato sullo Jonio), le scale e le finestre scardinate; che oscuri la facciata della chiesa di San Salvatore, le cappelle e le tombe come quella di Maviglia Francesco, fu Buonaventura, scomparso nel 1915. O se non sia il caso di favorire un approdo più semplice, con una camminata di contemplazione, ma con meno buche sulla strada che arriva da Bova, meno recinti per animali che allontanano gli uomini, meno verde selvaggio. Con un passaggio di preghiera a San Leo, uno sguardo curioso alla contrada Carrà, dove le mucche e i maiali continuano ad andare in libertà e rimane l’insegna del posto telefonico pubblico.
Africo vecchio ai piedi dei monti della Calabria
Il borgo vecchio è annunciato dai primi ruderi, gli edifici pubblici sono quelli che resistono meglio. La targa dedicata a Umberto Zanotti Bianco è del 2013 ma risulta già sbiadita, non basta a celebrare l’uomo che fece conoscere all’Italia un posto di inaudita miseria, lui che piantò una tenda all’ingresso del paese, girò a dorso di mulo e a piedi l’Aspromonte. La scuola che non c’è più porta il suo nome, geometrica e silenziosa nelle aule scoperchiate dove un tempo i bambini si scaldavano al braciere. Nel 1928 scrive: “Sono talmente stanco di tutto il luridume, di tutte le malattie, di tutte le lacrime senza speranza di questa povera gente!”.
Bisogna che lo sappiate: perché Africo è tutto meno che Africa, è montagna profonda e diaccia pur essendo a meno di 800 metri sul livello del mare, ed è già cambiata rispetto alle foto di Google di ieri perché quel che resta delle case sta soccombendo, il bosco avanza, i rovi pungono e non basta un bastone per andare avanti; in certi punti ci vorrebbe quasi un machete e qualche indicazione in più, però le more sono buone. Dove la piazzetta di pietra davanti alla chiesa ha angoli ancora comodi che hanno ospitato i discorsi di generazioni sulla tassa sulle capre, le stagioni ed i raccolti, la pagnotta fatta con la farina di cicerchie, la legge sulla molitura del grano e la festa del Carnevale. E dopo aver consultato Zanotti e Stajano, Petrozzi e Besozzi, Strati, Teti e i Criaco, dopo aver rivisto il film di Calopresti che raccontava un paese isolato che invadeva la Prefettura di Reggio – come in quei documentari sulla Calabria, in cui Vittorio De Seta raccontava un mondo senza strade – ecco, dopo forse è il caso di andare ad Africo.
I due volti contraddittori di Africo
Il comune di Africo ha sì poco meno di tremila abitanti, ma solo alla marina, che ha ispirato i migliori scrittori, fotografi, giornalisti italiani. Perché il paese antico raccontato nelle foto di Alessandro Mallamaci è la catastrofe – terremoti, alluvioni – che cambia la storia dei luoghi. È la fame nera di pane, servizi e istruzione, di un dottore che sale fino al paese quando può, è l’ostetrica che non c’è. L’Africo sulla costa visto dalla Statale 106 è invece anche mafia e ragazzi anarchici che si ribellano, pistole e feste patronali, il comune commissariato fino all’altro giorno: come se si fossero concentrati tutti qui i mali e i problemi del Sud. E spesso vince l’appeal commerciale alla Gomorra, il paese finisce come sfondo delle fiction sulla ‘ndrangheta, il narcotraffico che tutte le culture cancella: il paese di Africo ha più di mille anni, ma quella memoria è scomparsa. Restano i sentieri di querce e castagni percorsi dai monaci, i racconti dei briganti come Musolino e dei loro voti alla Madonna.
Sotto lo stesso nome, la montagna impenetrabile dei poveri e la spiaggia luminosa dove si è fermato con lo yacht Jeff Bezos, e chissà se avrà notato le pecore che arrivano quasi alla spiaggia, e nessuno gli avrà detto che lassù c’è un paese dove non arriva nemmeno Amazon, perché non troverebbe nessuno: questa è Africo. Sul cartello davanti al mare c’è scritto Africo Nuovo, ma come disse una volta monsignor Giancarlo Bregantini, “Africo Vecchio non lo troverai mai”. Perché sta venti chilometri più su, senza indicazioni, e tocca a noi ricordare quello che è stato. Fate che non diventi solo una location.
Giuseppe Smorto
A cura di Emilia Giorgi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #75
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