Sinfonia per i migranti. Il nuovo progetto di William Kentridge per Palermo
Torna a Palermo William Kentridge, a distanza di quattro anni dal suo debutto al Teatro Massimo nelle vesti di regista. Stavolta con un nuovo video e una serie inedita di disegni, insieme a opere già note. A Palazzo Branciforte, tra le sale espositive e l’affascinante Monte dei Pegni
È un luogo difficile da declinare e reinventare, l’ex Monte dei Pegni di Palermo, tesoro ligneo custodito all’interno di Palazzo Branciforte, dove fino al prossimo 12 gennaio trova posto la personale di William Kentridge (Johannesburg, 1955), curata da Giulia Ingarao e Alessandra Buccheri. Difficile è farne spazio espositivo, immaginando una destinazione centrata, azzeccata, rispettosa. La vertiginosa architettura, tanto povera, quanto carica di umanissime frequenze, si articola attraverso una fitta maglia di scaffali, carrucole, celle, tavoli, ripiani, montacarichi. Qui venivano depositati gli oggetti ceduti dalla povera gente in cambio di qualche soldo: abiti, scarpe, utensili, lenzuola, coperte… Reliquie domestiche di cui disfarsi, nella disperata ricerca di un riscatto, di una chance per sopravvivere.
Una porzione è occupata – secondo criteri non chiari – dalla collezione storica del teatro dei pupi di Mimmo Cuticchio, mentre nelle stanze rimaste vuote la Fondazione Sicilia, proprietaria dell’immobile restaurato su progetto di Gae Aulenti, ospita ogni tanto delle mostre. Museo di sé stesso, l’ex “Monte della Pietà per la Pignorazione”, costruito nel 1801 all’interno di questo edificio nobiliare, è un piccolo tempio sacro, con la sua carica emotiva straripante, la sua pregnanza storica e antropologica, la singolare struttura labirintica, spesso paragonata a un’allucinata visione di Piranesi. Un uso esclusivamente conservativo rappresenterebbe forse la scelta migliore. Con rarissime eccezioni, da destinare a opere site specific, magari di natura immateriale, connesse all’identità del luogo.
Gli arazzi e i disegni di Kentridge a Palermo
Certamente delicato e consapevole è l’approccio di un gigante come Kentridge, che arriva in città grazie a un progetto sostenuto dalla stessa Fondazione Sicilia, con il coordinamento di Sicily Art and Culture e l’organizzazione di Ruber contemporanea. Tre le sale delle collezioni archeologiche, al pianoterra, una selezione di arazzi, provenienti dalla serie Porters, funge da preludio, anticipando temi e figure: disegni e ricami su mohair ricostruiscono porzioni di mappe d’epoca (tratte da un atlante scolastico francese del XVIII secolo), che illustrano porzioni d’Europa, Francia, Germania, fino a quell’area dell’Asia minore che fu teatro della spedizione dei diecimila mercenari greci, guidati da Ciro il Giovane per la conquista dell’Impero persiano. Sulla trama di confini, coordinate, indicazioni toponomastiche, si stagliano imponenti silhouette nere, ombre di viaggiatori che attraversano i continenti: sulle spalle pesanti manufatti, simboli di quel carico di merci, paure, speranze, memorie, che ogni migrante porta con sé lungo il cammino.
Al piano superiore, nella stanza dedicata ai volumi del Grand Tour, sono allestiti a parete sedici disegni inediti, intitolati alla palermitana chiesa barocca di San Francesco Saverio e realizzati sulle pagine di un registro contabile del 1821: un’evocazione di perduti elenchi di merci, baratti o pagamenti, ulteriore indizio accostabile al deposito dei pegni che è fulcro della mostra. Spiega inoltre l’artista in un’intervista per Rai Cultura: “Si tratta di una carta particolare, con una qualità diversa: non è fatta con polpa di legno, ma con il cotone, quasi come se fossero state prese da qui le camicie e le vesti da notte, prestate e trasformate in carta…”. La mano corre sui fogli come scrittura magica: disegnatore visionario – la cui eccellenza tecnica si nutre di intensità spirituale e di potenza pittorica – Kentridge lascia affiorare giardini, scorci di paesaggi e ancora sagome di personaggi misteriosi, ibridazioni tra uomini e cose: teste d’uccello o a forma di caffettiera, corpi come alberi spogli, una statua sul suo plinto, un gendarme, uomini in giacca e cravatta le cui membra sono solidi geometrici, regoli, compassi, mappamondi. Un teatrino surrealista, costruito con segni di grafite, chine, carboncini e collage, in cui sfilano cori o processioni di entità storiche, simboliche, metamorfiche.
L’installazione nell’ex Monte dei Pegni
Procede, la sinfonia di partenze, migrazioni, desideri, disperazioni, distillati d’amore e di terrore, fino agli ambienti del Monte dei Pegni. Qui Kentridge sceglie saggiamente un intervento leggero, quasi impalpabile, tra i pochi elementi plastici e la predominanza del video, del suono. La musica pervade lo spazio attraverso otto megafoni conici in metallo, disposti tra gli scaffali. In continuità con la mise en scene de Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi, diretto dall’artista nel 2019 per il Teatro Massimo di Palermo, il tema del viaggio torna con prepotenza, cucendo insieme attualità, ispirazioni classiche, simbologie universali, contaminazioni tra Europa e Africa: Kentridge accosta così questo luogo singolare a una barca, un bastimento di anime e oggetti smarriti tra le acque. Oggetti che, probabilmente, molti avranno venduto uno o due secoli fa, nel tentativo di racimolare un gruzzolo con cui pagarsi un biglietto verso gli USA. Una grande, possibile metafora dell’emigrazione, un riferimento ai popoli di tutti i tempi e di tutte le regioni, in cerca di un approdo, una rotta felice, un canto di salvezza. E si levano, lungo il percorso, i canti e le note composti da Nhlanhla Mahlangu, lasciando risuonare quattro diversi sottogruppi delle lingue africane Nguni, a sua volta appartenenti al ceppo Bantu. Piccole sculture in bronzo (databili tra il 2016 e il 2022) abitano con discrezione alcuni angoli dell’intricata struttura in legno, quasi nascosti tra le celle ed i ripiani. Sono mirabili mix di cubi, teste, volatili, elementi meccanici: ulteriori reperti da scovare sul fondo di invisibili memorie, generati dal cortocircuito poetico tra passato e futuro, tra fantasticheria e documento storico.
La doppia proiezione di Kentridge a Palermo
A chiudere il cammino sono i due film d’animazione proiettati in loop su uno schermo, nel buio dell’ultima sala. You Whom I Could Not Save, che dà il titolo alla mostra, affida una narrazione per frammenti al movimento circolare di un astrolabio di carta, azzurro come i cieli verso cui guardare immaginando l’approdo migliore; azzurro come le acque di oceani solcati con volontà e timore. Incantano le raffinate composizioni di volti storici e di citazioni lirico-politiche, nel pathos delle voci risonanti e nell’asimmetria meccanica dei semicerchi: “Now the House of Justice has collapsed” (dalle Eumenidi di Eschilo), “No foreign sky protected me/no stranger’s wing shielded my face” (incipit dell’intensa elegia Requiem di Anna Akmatova), “Misfortune flows as from a water main” (dal Mistero buffo di Majakovskij)… Una costellazione ibrida, una preghiera per tutti coloro che non sono stati salvati, la cui memoria merita conforto, protezione, ricordando che il dramma di ogni uomo è dramma comune, e che il destino di uno è il destino di tutti, tra le pieghe del caso e la legge morale della responsabilità.
Struggente infine Sybil (2019), parte del progetto commissionato a Kentridge dal Teatro dell’Opera di Roma. A comporre il flip-book animato è una sequenza di disegni a inchiostro e carboncino, costruiti intorno alla figura di una danzatrice africana, personificazione di una Sibilla contemporanea. I fondali contro cui si muove la profetessa, al ritmo delle composizioni vocali di Mahlangu, sono pagine ingiallite di libri in cui si invera il mistero di immagini e testi: foglie, cappi, uccelli in volo, ritratti muliebri, geometrie colorate, frasi enigmatiche che sanno di vita e di morte, d’inferno e paradiso, e quell’albero che continua a tornare, in memoria della quercia sotto le cui chiome la Sibilla Cumana offriva a Zeus i suoi vaticini. Dalle animazioni filtra tutta la fragilità e la bellezza del mondo, con quel carico ancestrale di ombre, domande, sgomenti, e insieme di meraviglie, che l’essere umano ha affrontato lungo la linea del tempo. E la “tagliola del disamore”, per dirla con la poetessa Jolanda Insana, ha qui il sapore delle iniquità, delle tragedie storiche, dei naufragi ininterrotti, dei destini sacrificati e mai vendicati, dei sentieri tortuosi, delle fatiche ultime. Se è vero che “la morte cresce, è un albero dentro di te”, come recita uno dei versi tracciati a china sulle pagine, non bisogna “perdere tempo”: nessun posto dove andare, all’orizzonte, “ma la gioia vincerà la paura”.
Helga Marsala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati